Materialismo e riduzionismo: l’uomo non è «nient’altro» che un prodotto particolarmente complesso della natura?

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1 • Materialismo e riduzionismo

Il materialismo è quella corrente filosofica che afferma che la realtà è composta unicamente dalla materia; secondo il materialismo, tutti i fenomeni – inclusi quelli mentali e/o tutto ciò che crediamo sia “immateriale” – possono essere spiegati in termini di processi fisici/chimici/biologici.

Il riduzionismo invece è un approccio filosofico/metodologico secondo il quale qualsiasi fenomeno può essere “scomposto” in parti più piccole per comprenderlo; anche cose che crediamo essere molto complesse – come «la coscienza», o «l’amore», o «il libero arbitrio» – possono essere spiegate a partire dalla somma degli elementi che le costituiscono (biologia, chimica, atomi e molecole).

riduzionismo

Quando facevo il liceo – nella mia ingenuità – pensavo che materialismo e riduzionismo fossero idee relativamente recenti, in qualche modo collegate alla nascita della scienza moderna…

…poi ho scoperto che già nella Grecia antica c’erano filosofi come Democrito ed Epicuro (V-VI secolo a.C.), che credevano che la realtà fosse composta solo da atomi e dal vuoto che li separa.

Riprendendo le loro idee, anche il poeta latino Lucrezio (94-98 a.C. – 50-55 a.C) nel suo celebre poema De Rerum Natura riduceva ogni fenomeno a cause materiali, affermava che «nulla può essere creato dal nulla», rifiutava ogni tipo di finalismo naturale – sostenendo che non esiste alcuno “scopo superiore” nell’universo, e che le cose accadono semplicemente per necessità naturali, senza la necessità di tirare in ballo gli dei – e ribadiva che non esiste una terza realtà oltre ai corpo e al vuoto (cfr. ad esempio LUCREZIO, De Rerum Natura, Libro I, vv.418-439).

Insomma, c’erano materialisti e riduzionisti venti secoli fa, così come ci sono materialisti e riduzionisti nel XXI secolo.

Da un punto di vista strettamente teorico, non c’è nulla di male ad avere idee simili.

Da un punto di vista pratico, invece… di problemi ce ne sono eccome.

Perché?

Facciamo così: prima vi “sgancio la bomba”… poi nei prossimi paragrafi proverò ad argomentare.

La mia tesi è la seguente: più leggo libri, conosco persone, mi confronto con le idee più disparate, più mi rendo conto del fatto che una concezione materialista e riduzionista della realtà porta de facto alla disumanizzazione dell’uomo (a tal proposito, se volete farvi un regalo, vi suggerisco di leggere L’abolizione dell’uomo, un piccolo saggio scritto nel 1943 dallo scrittore, saggista e teologo britannico Clive Staples Lewis).

Di fronte a questa mia affermazione così perentoria, qualcuno potrebbe controbattere:

  • «Sale, non ti sembra una posizione un po’ esagerata?»
  • «A me sembra che il riduzionismo possa essere un modo per rendere la realtà più comprensibile!»
  • «Non potrebbe essere che la disumanizzazione dipenda da altro, e non dal riduzionismo?»
  • «Io sono materialista… ma non penso di essere una cattiva persona!»

Dunque.

Secondo me (*), se un materialista è «una brava persona», lo è solo nella misura in cui non è abbastanza materialista.

(*) (e forse anche secondo alcuni di voi, se avrete la pazienza di leggere questa pagina fino in fondo)

Quanto più una persona è materialista, tanto più tende a diventare pragmatista, utilitarista e cinica.

Quanto più prende il sopravvento una concezione funzionalistica dell’essere umano e dell’esistenza, tanto più c’è il rischio di negare quanto c’è di «umano» in noi.

Il materialismo e il riduzionismo sembrano interessanti.

Sembrano funzionali.

Offrono l’illusione di trovare «una risposta semplice e definitiva a domande complesse che continuamente pongono l’uomo davanti al mistero» (ANDREA AGUTI, dalla premessa a CLIVE STAPLES LEWIS, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 2017, p.8).

Ma in realtà portano al vicolo cieco che si chiama «disumanità».

Bene.

Se vi siete sentiti provocare da queste mie affermazioni piovute dal cielo, nei prossimi paragrafi proverò ad argomentare quanto detto poco fa.

2 • Che succede se applichiamo il materialismo/riduzionismo alla morale?

Facciamo finta che sia vero il riduzionismo materialista.

Facciamo finta di essere solo un ammasso di atomi in movimento, che seguono in modo meccanicistico il principio di causa-effetto.

Facciamo finta che il nostro cervello si sia evoluto “per caso” a partire dal brodo primordiale, seguendo ciecamente moti randomici di molecole.

Facciamo finta che sia vero quello che dice il biologo nonché guru dell’ateismo contemporaneo Richard Dawkins (classe ’41):

Noi siamo macchine per la sopravvivenza, veicoli automatici ciecamente programmati per preservare quelle molecole egoiste conosciute come geni.

(RICHARD DAWKINS, Il gene egoista, Bologna, Zanichelli 1979, p.1)

Molto bene.

Se è così, viene da sé che anche la nostra morale si è evoluta in questo modo.

Anzi.

Quella che noi chiamiamo «morale» in realtà è un costrutto sociale.

La «morale» è un qualcosa che si è evoluto unicamente tenendo conto di biologia/fisica/chimica.

Quello che noi chiamiamo «senso del dovere» dipende unicamente dall’istinto, che a sua volta dipende da impulsi elettrochimici.

Cosa sarebbe il «senso del dovere»?

Di sicuro non è qualcosa che si basa sulla «giustizia», perché anche quella è un costrutto sociale!

Il «senso del dovere» è il risultato dell’evoluzione:

  1. decine di migliaia di anni fa, alcuni nostri antenati – comportandosi in un certo modo – vivevano di più e avevano più figli;
  2. le abitudini di quelli che sopravvivevano e si adattavano meglio sono state tramandate di generazione in generazione – con l’insegnamento… o punendo chi non le seguiva;
  3. col tempo, gli uomini hanno iniziato a chiamare queste cose «la morale» o «la volontà di Dio», per rafforzare questi comportamenti.

Insomma, quello che noi oggi chiamiamo «giusto» o «sbagliato» dipende solo da comportamenti atavici che si si sono sedimentati talmente tanto nel nostro cervello, in quel costrutto sociale che oggi chiamiamo «la giustizia» o «la nostra coscienza» (Cfr. CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010, p.57).

Questo ragionamento sembra sensato…

Sembra logico…

Sembra lineare…

Sembra scientifico

bogdan artista del vomito alcolico

Dunque.

Continuiamo a far finta che il riduzionismo materialista sia vero.

Se è vero, quando io dico che «devo fare qualcosa», in realtà non mi sto appellando ad una «morale» o ad una «giustizia oggettiva»

…ciò che “sento” è solo una sensazione corporea – o mentale, se preferite.

Quando dico che «devo fare qualcosa» il mio cervello mi sta semplicemente mandando impulsi elettrici – simili a quelli che ricevo quando dico che «ho fame» o che «sono stanco» (Cfr. CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010, p.58).

Se è così, il fatto che io “senta” di dover fare qualcosa, non mi dice nulla sul fatto che l’azione che “sento” di voler fare sia giusta o sbagliata.

Semplicemente, mi sento spinto a farla.

La morale infatti – come abbiamo detto – è un costrutto sociale, un’illusione… ma non esiste.

Se è così, però, c’è un problema.

Come ci comportiamo quando ci troviamo in disaccordo con la nostra “coscienza”?

Non so voi, ma a me è capitato tante volte di avere pensieri tipo: «Voglio fare A, ma devo fare B» (cfr. CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010, p.57-58).

C’è una cosa che «voglio» fare.

Però la mia coscienza/inconscio mi dice che «devo» farne un’altra.

Quale dei due pensieri devo seguire?

Come scrivevamo sopra, quella che chiamiamo “coscienza” in realtà non esiste: è solo un automatismo riduzionista… ma non è detto che la spinta riduzionista sia “giusta”.

Magari era “giusto” comportarmi in quel modo nei secoli passati – quando i miei antenati si comportavano in quel modo per non essere uccisi da un mammut o da una tigre dai denti a sciabola…

Magari, in passato, quel comportamento mi avrebbe fatto sopravvivere più a lungo…

…ma forse – nel contesto moderno – potrei sopravvivere meglio se mi rifiutassi di seguire quella spinta (dato che quella spinta si basa sullo stile di vita di uomini e donne vissuti decine di migliaia di anni fa).

Se sento di «dovermi» comportare in un certo modo perché i miei antenati si sono sempre comportati in quel modo… come posso sapere se quello stile di vita (cioè quella «morale») vada bene nel presente?

Quando sento di «voler fare A», ma di «dover fare B», in base a quale criterio scelgo se fare A o B?

In base alla «morale»?

Ma non abbiamo detto che la «morale» non esiste, e si tratta di un automatismo?

In base a quale criterio assiologico posso scegliere se seguire o meno questo automatismo?

Insomma…

Siamo finiti in un vicolo cieco…

Il riduzionismo materialista “spiega” (*) perché noi diciamo che alcune cose sono «giuste» o «sbagliate»… ma non ci dice se abbiamo ragione nel ritenere alcune cose giuste o sbagliate.

(*) (ammesso che la spiegazione sia corretta… cosa che, ovviamente, non penso)

Il riduzionismo materialista non mi offre una “bussola” da seguire quando sento che «voglio fare A, ma devo fare B».

Il riduzionismo materialista non mi dice se la “morale” è «giusta» o «sbagliata»

…mi dice solo che la morale è la sedimentazione di decine di migliaia di anni nei quali i miei pro-pro-pro-genitori si sono comportati in un certo modo…

…ma non mi dice se quel comportamento va bene nell’epoca in cui vivo.

~

Bene.

Abbiamo seguito fin dove possibile il vicolo cieco del riduzionismo/materialismo… ora torniamo ad accendere il cervello!

Nella vita vera, quando dico che «devo fare A» in realtà c’è qualcosa che sento, che è più profonda rispetto ai sentimenti che provo in quel momento.

Quando dico che una cosa è «giusta» e un’altra è «sbagliata», faccio appello alla mia coscienza.

Non è solo questione di istinti, di emozioni, di convenzioni sociali, di bias cognitivi… tu ed io, quando formuliamo le nostre valutazioni morali, mettiamo in moto la ragione, l’intelletto, la volontà.

Se qualcuno mi dice che «rubare è giusto», non gli dico «segui il tuo istinto!»… gli dico piuttosto: «Non dire stronzate! Sii ragionevole!» (cfr. CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010, p.56).

I riduzionisti materialisti (che siano marxisti, freudiani o altri pseudo-intellettuali che negli ultimi secoli hanno formulato teorie secondo le quali l’uomo non è «nient’altro che…») spesso criticano la morale tradizionale, dicendo che è «frutto di condizionamenti o forze nascoste»ma anche loro – paradossalmente – usano delle categorie morali per dire che una certa morale è «oppressiva» oppure «sbagliata» (cfr. CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010, p.57).

Insomma, come scriveva il filosofo, matematico e sacerdote russo Pavel Florenskij (1882-1937):

Delle due l’una: o bisogna ammettere che le leggi della logica [nota mia: «e della morale»] sono per principio casuali, oppure bisogna inevitabilmente ammettere che hanno un fondamento translogico […].

(PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.73)

(Come si evince dalle varie parentesi che ho seminato qua e là, per scrivere questo paragrafo ho copiato a mani basse da CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010, p.56-58… nel dubbio comunque leggetevi il libro di Lewis per intero, ché è una miniera d’oro!)

3 • Che succede se applichiamo il materialismo/riduzionismo ai nostri desiderî?

Facciamo di nuovo finta che sia vero il riduzionismo materialista.

Facciamo finta di essere solo la concatenazione di cellule e tessuti, che seguono deterministicamente le leggi della biologia e della chimica per mantenere l’omeostasi del nostro corpo.

Facciamo finta che i nostri pensieri siano il risultato di segnali elettrochimici – regolati da processi biofisici – scambiati tra i neuroni.

Facciamo finta che la nostra coscienza emerga semplicemente dall’interazione di reti neurali, senza alcuna possibilità che ci sia qualcosa che sfugga alle leggi della materia.

Molto bene.

Se è così, viene da sé che anche i nostri desiderî si sono evoluti in questo modo.

Anzi.

Quelli che noi chiamiamo «desiderî» o «ricerca della felicità» in realtà sono costrutti sociali.

I «desiderî» sono qualcosa che si è evoluto unicamente tenendo conto di biologia/fisica/chimica.

La «ricerca della felicità» dipende unicamente dall’istinto, che a sua volta dipende da impulsi elettrochimici.

Quando usiamo espressioni come:

  • «La lettura è la mia grande passione!»
  • «Viaggiare mi rende felice!»
  • «Ho capito che la mia vocazione è fare l’assistente sociale!»
  • «Ascoltando il mio cuore, ho capito che lui/lei è la persona giusta per me!»

…tutte queste frasi sono solo costrutti lessicali, perché «desiderî» e «felicità» sono il risultato dell’evoluzione:

  1. decine di migliaia di anni fa, alcuni nostri antenati – spinti da certe pulsioni – trovavano cibo, riparo o partner con maggiore successo, aumentando le loro possibilità di sopravvivenza e riproduzione per la conservazione della specie;
  2. queste tendenze, radicate nei circuiti neurali e nei sistemi ormonali, si sono consolidate attraverso processi evolutivi, premiando gli individui più adatti a soddisfare tali istinti;
  3. col passare delle generazioni, gli uomini hanno iniziato a etichettare queste pulsioni come «desideri» o «ricerca della felicità», interpretandoli come aspirazioni personali…
  4. …ma di fatto dipendono unicamente da meccanismi di adattamento darwiniani e dalla selezione naturale – non c’è nulla di romantico o di poetico.

Questo discorso sembra scientifico…

Sembra rigoroso…

Sembra una prova provata di come sono andate le cose…

…ma, anche in questo caso – sei esaminano più da vicino i singoli passaggi – si può notare facilmente che il ragionamento non sta in piedi.

Per fare il debunking di queste affermazioni, vorrei partire dal significato della parola «istinto».

Che significa la parola «istinto»?

Provate a cercarla sulla Treccani… o su Google…

Troverete definizioni in cui si parla di una «tendenza innata»… di una «spinta interna»… ma sono tutti termini vaghi, imprecisi, fuffosi.

Ogni volta che qualcuno usa questa parola, mi viene in mente quello che ha scritto a riguardo Clive Staples Lewis (1898-1963):

[…] «istinto» è il nome che diamo a non si sa cosa (dire che gli uccelli migratori trovano la strada per istinto significa solo dire che noi non sappiamo come gli uccelli migratori trovino la strada).

(CLIVE STAPLES LEWIS, L’abolizione dell’uomo, Jaca Book, Milano, 2016, p.39)

Essendo una parola vaga e imprecisa, la parola «istinto» viene usata per indicare cose molto diverse tra loro:

  • da un lato, usiamo la parola «istinto» per indicare una pulsione immediata: parliamo di «istinto sessuale» per indicare un desiderio individuale, viscerale, che si soddisfa con l’appagamento del piacere;
  • dall’altro lato, usiamo la stessa parola per qualcosa di completamente diverso, come l’«istinto di conservazione della specie» – in questo caso, parliamo di un meccanismo inconscio, biologico, che guida la sopravvivenza del gruppo senza che ce ne rendiamo conto.

Nonostante si tratti di due realtà molto diverse tra loro – una personale e istantanea, l’altra collettiva e astratta – in entrambi i casi usiamo la parola «istinto».

A tal proposito, Lewis ha scritto queste righe:

Il desiderio è finalizzato alla cosa concreta: quella donna, quel piatto di minestra, quel bicchiere di birra; invece la preservazione della specie è un’astrazione superiore che non sfiora neanche la mente della gente che non pensa, e che influenza il comportamento delle persone più colte proprio in quei momenti in cui sono meno istintive.
Ma a volte, e più correttamente, intendiamo per istinto quel comportamento che prescinde dalla conoscenza.
Così certi insetti realizzano azioni elaborate con la finalità di covare uova e di nutrire le larve: e visto che (a torto o a ragione) ci rifiutiamo di attribuire la consapevolezza di un progetto e la conoscenza a queste creature, diciamo che hanno agito «per istinto».
Ciò che questa frase possa significare dal punto di vista soggettivo, cioè come la questione appaia (se appare) vista dall’insetto, non ci è dato sapere.
In questo senso dire che abbiamo un istinto a preservare il genere umano, sarebbe come dire che ci troviamo obbligati, anche se non capiamo perché, a compiere determinate azioni che concretamente (anche se non era questa la nostra intenzione) tendono a preservarlo.
Il che sembra molto improbabile.
Quali sono queste azioni?

(CLIVE STAPLES LEWIS, Riflessioni cristiane, Gribaudi, Milano 1997, p.77)

Insomma.

La parola «istinto» è un termine equivoco.

E come tutti i termini equivoci, non dovrebbe essere usata in discorsi nei quali si vuole cercare di dire cose “scientifiche”

…ad esempio, quando si parla dell’«istinto di conservazione della specie».

In che consiste questo istinto?

Cosa intendiamo quando usiamo questa parola?

È un impulso inconsapevole che ci spinge a preservare il genere umano?

Una forza innata che ci guida verso un bene collettivo?

Maaa… siamo sicuri che questa spinta esista?

Cioè.

Se ci fermiamo un secondo e proviamo a “guardarci dentro”, non mi sembra così evidente rintracciare questo istinto.

Forse un genitore può sentire naturalmente e spontaneamente un impulso a proteggere i proprî figli a discapito della propria vita…

sacrifici per l umanita

Riprendendo le parole di Lewis:

Mi sembra piuttosto che abbiamo l’impulso a difendere i nostri figli e nipoti, un impulso che si indebolisce progressivamente quando le nostre menti si immergono sempre più nel flusso delle generazioni, e che è destinato a scomparire del tutto se viene lasciato alla sua forza spontanea.
Chiediamoci, per esempio, quanti padri in questa platea sarebbero disposti a sacrificare spontaneamente il loro figlio per il bene dell’umanità.
La mia domanda non è se un padre sacrificherebbe così suo figlio, ma se, dovendolo fare, obbedirebbe ad un impulso spontaneo.
La risposta non sarebbe forse che, se proprio gli fosse richiesto un tale sacrificio, lo compirebbe non in obbedienza ad un impulso naturale, ma in una strenua sfida nei confronti di esso?
Tale atto, come l’immolare sé stessi, sarebbe un trionfo sulla natura.

(CLIVE STAPLES LEWIS, Riflessioni cristiane, Gribaudi, Milano 1997, p.78)

Se sono chiare le contraddizioni scritte qui sopra, aggiungerei un ultimo tassello – per dare alla parola «istinto» il colpo di grazia.

Facciamo finta che esista davvero un «istinto di conservazione della specie».

Non so se ci avete fatto caso, ma questo è un istinto di tipo altruistico – cioè non mira al mio soddisfacimento personale, ma al perseguimento di un “bene più grande”, esterno a me.

Bene.

Si dà il caso però che nella mia psiche esistano tanti altri istinti egoistici che premono per essere soddisfatti:

  • l’istinto di mangiare/bere
  • l’istinto di appagare i miei desiderî sessuali
  • l’istinto di accumulare risorse o ricchezze
  • etc.

Molti di questi istinti sono in contrasto tra loro: assecondarne uno spesso significa negarne un altro (cfr. Ibidem).

Come si fa a decidere quale deve essere soddisfatto?

Qualcuno forse potrebbe rispondere: «Forse – di volta in volta – assecondiamo l’istinto che “preme di più” in un dato momento?».

Se qualcuno di voi ha risposto in questo modo… ha risposto male.

Ecco cosa dice Lewis a riguardo:

L’istinto di conservare l’umanità, se proprio esiste, è tra quelli la cui realizzazione è destinata con più probabilità a causare molte frustrazioni agli istinti che mi rimangono.
Ne andranno di mezzo la mia fame e sete, i desideri sessuali e gli affetti familiari.
[…]
Perché dovrei preferire questo istinto a tutti gli altri?
Non è certamente quello che sento con più forza.
E anche se lo fosse, perché non dovrei cercare di combatterlo, come un alcolizzato che viene incoraggiato a vincere il suo desiderio tirannico?
Perché i miei consiglieri suggeriscono sin dall’inizio, senza argomentazioni, che questo istinto diventi il dittatore della mia anima?
Non facciamoci ingannare dalle parole.
È inutile dire che questo è il mio istinto più profondo, più alto, o più radicato o nobile.
Queste parole possono indicare o che è il mio istinto più potente (il che è falso e non vi sarebbe nessun motivo per seguirlo anche se fosse vero), o che nasconde un’introduzione subdola della sfera etica.

(CLIVE STAPLES LEWIS, Riflessioni cristiane, Gribaudi, Milano 1997, p.78)

Insomma:

  • non è vero che noi diamo ascolto all’«istinto» più forte che sentiamo di volta in volta dentro di noi: tante volte mettiamo a tacere le pulsioni «più forti» per dare ascolto a qualcosa di «più delicato»;
  • (rimanendo sull’esempio dell’alcolismo che ha fatto Lewis) il fatto che abbiamo una pulsione molto forte in direzione di qualcosa, non significa che quella pulsione sia una cosa buona per noi o per la specie.

Come se ne esce?

Anche in questo caso, il materialismo/riduzionismo ci ha portati ad un vicolo cieco.

Infatti, l’unico modo di organizzare i nostri «istinti» è in base ad una gerarchia etica esterna ad essi.

O, per dirla nuovamente con le parole di Lewis:

Se non organizzate gli istinti in una gerarchia basata sul grado di importanza, non ha senso dirci di seguire un dato istinto, in quanto gli istinti sono in conflitto tra loro.
Se invece li organizzate sarà secondo un principio morale, basandovi su giudizi etici nei loro confronti.
Se l’istinto è l’unico vostro metro di valutazione, allora nessun istinto può dirsi superiore rispetto agli altri perché ciascuno pretenderà di essere soddisfatto a scapito degli altri.

(CLIVE STAPLES LEWIS, Riflessioni cristiane, Gribaudi, Milano 1997, p.79)

4 • Che succede se applichiamo il materialismo/riduzionismo a… noi stessi?

Abbiamo parlato della morale – facendo alcune riflessioni e ragionamenti, fino ad arrivare al paradosso per cui «vorrei fare A, ma devo fare B».

Abbiamo parlato dei desiderî – facendo alcune considerazioni sulle nostre scelte, fino ad arrivare al paradosso per cui è impossibile scegliere quale istinto seguire se non esiste un criterio di scelta che vada al di fuori degli istinti stessi.

Secondo me però si può semplificare ulteriormente il discorso.

Nel lontano 2016 – quando ho scritto la pagina del blog in cui mi presentavo – dicevo che la mia intenzione era di condividere qui sul blog tutto ciò che avrei scoperto nelle mie “indagini”, mantenendo più possibile il tono di una chiacchierata al pub con un amico.

Ebbene.

Senza avventurarsi in funambolismi e voli pindarici.

Sapete – secondo me – qual è la prova più grande del fatto che il materialismo/funzionalismo è una gran fregnaccia?

La prova più grande è che tu che stai leggendo questa pagina ci sei.

Sei un «tu» diverso da «me».

Non sei un comodino.

Non sei un computer.

Non sei una macchina che elabora segnali.

Sei una persona che sa di esserci, un essere razionale, consapevole della tua esistenza, in grado di pensare, formulare giudizî, interrogarti sul senso di ciò che vivi, capace di distinguere il «vero» dal «falso» e il «bene» dal «male».

distinguere il bene dal male

A scanso di equivoci, la questione dell’autocoscienza non è farina del mio sacco.

Non so se conoscete Antony Flew.

Per chi non lo conoscesse, Antony Flew (1923-2010) è stato un filosofo britannico, noto per essere stato uno dei più influenti atei del XX secolo (tanto per capirci… avete presente la famosa frase per cui «una discussione sull’esistenza di Dio dovesse iniziare col supporre l’ateismo e che l’onere della prova dovesse spettare ai teisti»? Ebbene, l’ha scritta Antony Flew nel paper The Presumption of Atheism, pubblicato nel 1976).

Per tutta la sua carriera accademica, Flew ha adottato un approccio razionalista e critico nei confronti della religione…

…finché, nel 2004, ha sorpreso tutta la comunità accademica (e non solo quella!) annunciando la sua conversione al teismo.

Non si è convertito a nessuna religione rivelata… però ha accettato l’esistenza di un’intelligenza razionale e creatrice all’origine dell’universo.

Nel 2007 (tre anni prima di morire) Flew ha pubblicato il libro «Dio esiste. Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea», nel quale racconta sinteticamente (sono meno di 200 pagine) il percorso che lo ha portato dall’ateismo al teismo.

Percorso che – come ha detto lui stesso – «è stato un pellegrinaggio della ragione e non della fede» (ANTONY FLEW, Dio esiste : come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa & omega, Caltanissetta 2010, p.104).

Perché vi ho citato Antony Flew?

Perché al termine del suo libro c’è un appendice, scritta da Roy Abraham Varghese (1957-…) – scrittore e saggista statunitense, nonché curatore della pubblicazione del libro di Flew.

In questa appendice, Varghese scrive queste righe:

Paradossalmente, la svista più importante dei nuovi atei è il dato più ovvio di tutti: loro stessi.
La realtà soprafisica/fisica ultima che noi conosciamo grazie all’esperienza è proprio colui che la sperimenta, cioè noi stessi.
Una volta che riconosciamo il fatto che esiste una prospettiva in prima persona, “io”, “a me”, “mio” e simili, incontriamo il mistero più grande e finora più emozionante di tutti.
Io esisto.
Per capovolgere Cartesio: «Sono, dunque penso, percepisco, intendo, significo, interagisco».
Chi è questo “io”?
“Dove” si trova?
Com’è giunto in essere?
Voi stessi ovviamente non siete solamente qualcosa di fisico, proprio come non siete solamente qualcosa di soprafisico.
Siete un io in carne e ossa, un corpo con un’anima; “voi” non siete in una specifica cellula cerebrale o in qualche parte del vostro corpo. Le cellule nel vostro corpo continuano a cambiare e ciononostante “voi” rimanete gli stessi.
Se studiate i vostri neuroni, scoprirete che nessuno di essi ha la proprietà di essere un “io”.
Ovviamente il vostro corpo completa chi voi siete, ma è un “corpo” perché formato come tale dall’io.
Essere umani significa possedere un corpo e un’anima.

(ROY ABRAHAM VARGHESE, Il “nuovo ateismo” : una valutazione critica di Dawkins, Dennet, Wolpert, Harris e Stanger, in ANTONY FLEW, Dio esiste : come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa & omega, Caltanissetta 2010, p.179)

Nel resto dell’appendice, Varghese fa una serie di altre riflessioni molto interessanti sull’esistenza dell’io.

Il punto di partenza di queste riflessioni è una citazione del celebre filosofo scozzese David Hume (1711-1776).

Nel suo Trattato sulla natura umana, Hume scrive:

Quando mi addentro più intimamente in ciò che chiamo me stesso, […] non riesco mai ad afferrare me stesso senza una percezione, né posso mai osservare qualcosa che non sia una percezione.

(DAVID HUME, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano 2001, p.505)

Commentando la frase di Hume, Varghese scrive:

Hume nega l’esistenza di un io affermando semplicemente che lui (intendendo dire “io”!) non può trovare “me stesso”.
Ma cos’è che unifica le sue diverse esperienze, che gli permette di essere consapevole del mondo esterno e che rimane lo stesso dal principio alla fine?
Chi si sta ponendo queste domande?
Suppone che “me stesso” sia uno stato discernibile come i suoi pensieri e i suoi sentimenti.
Ma l’io non è qualcosa che può essere osservato così.
È un fatto di esperienza costante e, in effetti, la base di tutta l’esperienza.

(ROY ABRAHAM VARGHESE, Il “nuovo ateismo” : una valutazione critica di Dawkins, Dennet, Wolpert, Harris e Stanger, in ANTONY FLEW, Dio esiste : come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa & omega, Caltanissetta 2010, p.179-180)

Continuando nella stessa direzione, Varghese prosegue così:

Di tutte le verità a noi disponibili, l’io è allo stesso tempo il più ovvio e irrefutabile e il più letale per tutte le forme di fisicalismo.
Per iniziare, dev’essere detto che una negazione dell’io non può nemmeno essere rivendicata senza cadere in contraddizione.
Alla domanda «Come so di esistere?» un professore rispose splendidamente: «E chi lo sta chiedendo?»
.
L’io è ciò che siamo e non ciò che abbiamo.
È dall'”io” che sorge la nostra prospettiva in prima persona.
Non possiamo analizzare l’io, poiché non è uno stato mentale che può essere osservato o descritto.

(ROY ABRAHAM VARGHESE, Il “nuovo ateismo” : una valutazione critica di Dawkins, Dennet, Wolpert, Harris e Stanger, in ANTONY FLEW, Dio esiste : come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa & omega, Caltanissetta 2010, p.180)

Nel corso della storia ci sono stati molti studiosi (*) che hanno riflettuto sull’esistenza dell’io:

  • Cos’è?
  • Come si forma?
  • È reale? È illusorio?
  • È qualcosa di stabile?
  • È un costrutto mentale?

(*) (solo per rimanere agli ultimi due secoli, mi vengono in mente Sigmund Freud, Carl Gustav Jung, Heinz Kohut, Antonio Damasio, Thomas Metzinger, Daniel Dennett, David Chalmers, Yuval Noah Harari)

Alcuni studiosi hanno detto che l’io è una costruzione dinamica… o meglio, un «centro di gravità narrativa» (DANIEL DENNET, Consciousness Explained, Little Brown, Boston 1991).

Altri hanno fatto distinzioni tra diverse «tipologie di io» (ad esempio, Antonio Damasio distingue tra «sé nucleare» e «sé autobiografico»; cfr. ANTONIO DAMASIO, The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciousness, Harcourt Brace, New York 1999).

Altri ancora hanno detto che l’io «è un’illusione generata da un modello del cervello chiamato “Phenomenal Self-Model”» (cfr. THOMAS METZINGER, The Ego Tunnel: The Science of the Mind and the Myth of the Self, Basic Books, New York 2010).

Dunque.

Io non sono uno psicologo.

Non sono un neuropsichiatra.

Non sono un filosofo della mente.

Non sono studiato in queste questioni.

Pistola alla tempia, farei molta fatica a dire se mi trovo maggiormente d’accordo (o in disaccordo) con l’uno o con l’altro autore – che conosco in modo superficiale ed approssimativo.

Però – da ignorante in materia – non riesco a concepire i tentativi dei materialisti/riduzionisti di presentare l’io come «un’illusione».

Cioè.

Sicuramente io – a confronto con questi studiosi – sono lo scemo del villaggio

…ma ho l’impressione che l’approccio materialista/riduzionista sia un autogol.

Di rovesciata.

All’incrocio dei pali.

Per carità, i ragionamenti dei riduzionisti/materialisti sono intriganti…

…ma il più delle volte, mi sembra che questi intellettuali utilizzino lo strumento sbagliato.

Un po’ come se si volesse osservare un dipinto di Caravaggio col microscopio ottico.

Intendiamoci: non dico che osservando al microscopio ottico la Vocazione di san Matteo non si possano scoprire un sacco di cose interessanti…

…ma non è così che si osserva un quadro, se si vuole capire il senso dell’opera.

Secondo me, per comprendere l’esistenza dell’io bisogna adottare un approccio olistico – bisogna cioè considerare l’io nella sua totalità, analizzando tutte le sue parti interconnesse invece di concentrarsi su singoli aspetti isolati.

Spesso infatti, quando cerchiamo di guardare le cose “da troppo vicino”, corriamo il rischio di andare fuori strada.

Quando cerchiamo di trovare una definizione “scientifica” di alcuni concetti primitivi, corriamo il rischio di commettere errori molto grossolani.

Per usare nuovamente le parole di Varghese:

La scienza non scopre l’io; l’io scopre la scienza.
Capiamo che nessuna considerazione della storia dell’universo è coerente se non può giustificare l’esistenza dell’io.

(ROY ABRAHAM VARGHESE, Il “nuovo ateismo” : una valutazione critica di Dawkins, Dennet, Wolpert, Harris e Stanger, in ANTONY FLEW, Dio esiste : come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa & omega, Caltanissetta 2010, p.180)

Mi rendo conto che queste mie considerazioni non costituiscono una “prova scientifica” dell’esistenza dell’io, né una “dimostrazione matematica”.

Come è già capitato in altre occasioni qui sul blog, sto facendo appello al vostro senso comune – che spesso è lo strumento migliore che abbiamo per avvicinarci alla verità.

E – secondo me – ai riduzionisti/materialisti che negano l’esistenza dell’io, o che lo riconducono a cause unicamente materiali, manca proprio il senso comune:

Nonostante i nuovi atei non siano riusciti a venire alle prese né con la natura né con la fonte della vita, della consapevolezza, del pensiero e dell’io, la risposta alla domanda circa l’origine del soprafisico appare ovvia: esso può avere origine solo in una fonte soprafisica.
La vita, la consapevolezza, la mente e l’io possono solo provenire da una Fonte che è viva, consapevole e pensante.
Se noi siamo dei centri di coscienza e di pensiero in grado di conoscere, di amare, di avere intenzioni e di attuarle, non riesco a capire come tali centri possano giungere in essere da un qualcosa che è esso stesso incapace di compiere tutte queste attività.

(ROY ABRAHAM VARGHESE, Il “nuovo ateismo” : una valutazione critica di Dawkins, Dennet, Wolpert, Harris e Stanger, in ANTONY FLEW, Dio esiste : come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa & omega, Caltanissetta 2010, p.181)

Insomma.

Se mi concedete una battuta sarcastica.

Se siete tentati dal riduzionismo/materialismo quando parliamo di un argomento così vertiginosamente complesso e metafisico come l’io, credo che abbiate bisogno di un aiuto, non di una dimostrazione (cfr. JOHN SEARLE, La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p.25).

5 • Per fortuna, non esistono (veri) materialisti/riduzionisti

Dopo aver speso quattro paragrafi a parlare di materialismo e riduzionismo, penso sia arrivato il momento di svelare il segreto di Pulcinella.

E quale sarebbe questo segreto?

Il segreto è che non esistono (veri) materialisti e riduzionisti.

  • «In che senso “non esistono”
  • «Io sono un materialista… come puoi dire che non esisto? Sono qui davanti a te!»
  • «Non ho mai creduto all’esistenza di una realtà all’infuori della materia! Cosa sono secondo te?»
  • «Io credo solo a ciò che la scienza può dimostare! Fisica, chimica, biologia e basta! Più riduzionista di così!»

Allora.

Io non nego che esistano persone che dicono di essere materialiste/riduzioniste…

…quello che nego è che lo siano davvero (*).

(*) (Parafrasando quel che dice Lewis in CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010, p.58-59)

Ho più di un amico che pensa che:

  • «Il libero arbitrio è un illusione, perché tutto è determinato dal principio di causa-effetto»
  • «L’amore è solo un impulso chimico proveniente dal nostro cervello»
  • «La morale è solo un condizionamento biologico»
  • «Bene e male non esistono, esistono solo le leggi della Natura»
  • etc.

Ho conosciuto molti studenti di fisica, di matematica o di qualche altra materia STEM che pensano cose simili – sulla falsa riga di Sheldon Cooper o di qualche altro personaggio di The Big Bang Theory.

Il problema è che queste persone non fanno in tempo a finire il loro discorsetto riduzionista, che si contraddicono due secondi dopo, dicendo cose come:

  • «Tutto è determinato dal principio di causa-effetto… però dobbiamo combattere per migliorare la società!»
  • «L’amore è solo un impulso chimico proveniente dal nostro cervello… ma ti amo con tutto il cuore e voglio passare la vita con te!»
  • «La morale è solo un condizionamento biologico… però le ingiustizie vanno denunciate con forza!»
  • «Bene e male non esistono… ma son* fiero di lottare a favore della causa LGBT+!»
  • «Quelli che tu chiami “valori” in realtà sono solo condizionamenti… però la libertà è un diritto fondamentale!»
  • «La coscienza è solo un costrutto sociale… però Adolf Hitler era un mostro e un uomo malvagio!»
la scienza ci guidera verso un futuro migliore

Chi dice frasi del genere, non si rende conto che per pronunciarle sta formulando giudizi basandosi sulla propria coscienza, sui proprî desiderî e sul proprio senso morale (che come spiegavo sopra, non sono riconducibili alla sola materia).

Chi gioca a fare il Nietzsche-del-terzo-millennio e critica la «morale borghese» o la «morale tradizionale», lo fa basandosi su una scala di valori che – gli piaccia o no – si basa su giudizî morali espressi da lui (cfr. CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010, p.60).

Insomma.

A costo di ripetermi.

I materialisti/riduzionisti dicono che non esiste una morale e che quella «vocina interiore» che percepiamo è dovuta al fatto che il nostro cervello è stato “programmato” dalla selezione naturale perché provi determinate sensazioni necessarie alla sopravvivenza della specie umana.

E dunque «sentiamo» dentro di noi giudizî morali, così come «sentiamo» di avere fame, sete o sonno, o «sentiamo» che ci piace quel profumo e ci fa schifo quella puzza.

Poi però, gli stessi materialisti/riduzionisti:

  • si riempiono la bocca di parole come «bene comune», «pari opportunità», «solidarietà», …cose che si basano sul concetto di «giustizia», che ha senso solo se esiste un parametro oggettivo per valutarla;
  • difendono i diritti delle minoranze, degli oppressi, degli animali, della Terra… ma se tutto è frutto del caso e della selezione naturale, allora anche l’oppressione fa parte del gioco evolutivo, e quindi… perché indignarsi?
  • provano disprezzo per chi «non ha valori», per chi è «egoista», «fascista», «razzista», «omofobo»… ma se la morale è solo un condizionamento cerebrale, i valori di Tizio e Caio si equivalgono: perché mai uno dovrebbe essere “peggiore” dell’altro?
  • si interrogano sul senso della propria esistenza – ma se non esiste una «finalità» nella vita, su quale base si definisce il «dare senso» come una cosa positiva?

Insomma.

Si capisce il paradosso?

Per usare nuovamente le parole di Lewis, il riduzionismo sembra «una rappresentazione delle cose alla quale nessuno crede davvero» (CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010, p.56).

I riduzionisti/materialisti non possono mandare gambe all’aria la morale, e poi pretendere che io «dia ascolto alla mia coscienza» il giorno dopo (cfr. Ibidem, p.60).

Non c’è via d’uscita se seguiamo queste linee.
Se continuiamo a formulare dei giudizi morali (e qualsiasi cosa diciamo, sarà così) allora dobbiamo credere che la coscienza dell’uomo non sia un prodotto della Natura.
Può essere valida solo come diramazione di un sapere morale assoluto, un sapere morale che esiste assolutamente «di per sé», e non è un prodotto della Natura non morale e non razionale.

(CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010, p.61)

Conclusione

Erwin Schrödinger (1887-1961) è stato un celebre fisico austriaco – vincitore del premio Nobel per la fisica nel 1933.

Probabilmente lo avrete sentito nominare per l’esperimento mentale che ha preso il nome di paradosso del gatto di Schrödinger.

Ebbene.

Nel 1961 lo scienziato ha scritto un saggio filosofico in cui espone la sua concezione unitaria della realtà.

Schrödinger non era un «credente», nel senso che diamo noi a questa parola (cristiano, musulmano, ebreo, etc.)…

…però era tutto fuorché un riduzionista/materialista:

Il quadro scientifico del mondo intorno a me è molto carente.
Mi offre molte informazioni effettive, mette tutta la nostra esperienza in un ordine magnificamente coerente, ma è terribilmente silenzioso per quanto riguarda tutto ciò che è davvero vicino ai nostri cuori, ciò che davvero conta per noi.
Non è in grado di dirci nemmeno una parola sulla sensazione di rosso e blu, amaro e dolce, sentimenti di piacere e di dolore.
Non sa nulla del bello e del brutto, del buono o del cattivo, di Dio e dell’eternità.
La scienza a volte finge di rispondere a domande in questi campi, ma le risposte sono molto spesso così sciocche che non siamo propensi a prenderle sul serio.
La scienza è reticente anche quando si tratta della grande Unità della quale in qualche modo facciamo parte, alla quale apparteniamo. Il nome più noto per definirla ai nostri tempi è Dio, con una “D” maiuscola.
La scienza viene tacciata, molto spesso, di ateismo. Dopo quanto detto, ciò non sorprende. Se il suo quadro del mondo non contiene nemmeno la bellezza, il piacere, il dolore, se la personalità è tagliata fuori da esso, secondo accordo, come potrebbe contenere l’idea più sublime che si presenta alla mente umana.

(ERWIN SCHRÖDINGER, La mia visione del mondo, Milano, Garzanti 1987, p.93)

Insomma, come dice Amleto nell’omonima tragedia di William Shakepeare (1564-1616):

Ci sono molte più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni nella tua filosofia.

(WILLIAM SHAKESPEARE, Amleto, Atto I, Scena V)

sale

(Primavera 2025)

Fonti/approfondimenti
  • CLIVE STAPLES LEWIS, L'abolizione dell'uomo, Jaca Book, Milano 2016
  • CLIVE STAPLES LEWIS, Miracoli : uno studio preliminare, Lindau, Torino 2010
  • CLIVE STAPLES LEWIS, Riflessioni cristiane, Gribaudi, Milano 1997
  • ANTONY FLEW, Dio esiste : come l'ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa & omega, Caltanissetta 2010
  • PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010
  • CLIVE STAPLES LEWIS, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 2017

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