Cos’è la vocazione?

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Premessa

Il titolo di questa pagina è «Cos’è la vocazione?».

Il sottitolo (che però non entrava) sarebbe potuto essere: «Pensieri confusi di un asino che non ha ancora trovato la propria».

Ciò detto… buona lettura!

vocazione premessa

1 • Programmare, organizzare, pianificare, progettare… «bene, ma non benissimo»

Fregnaccia #1:

Fino a qualche anno fa credevo che per trovare la propria vocazione bisognasse fare queste cose:

  1. scrivere un elenco delle cose che mi piacciono;
  2. capire quella per cui sono più portato o che mi intriga di più;
  3. investire tempo e risorse per diventare sempre più bravo in quella cosa;
  4. «e vissero tutti felici e contenti»

Poi è arrivato Marko Ivan Rupnik, e mi ha fatto una bella lavata di capo:

[…] pensare e progettare la nostra vita […], mi dispiace molto, non è rispondere alla vocazione.
Programmare la vita è una cosa.
Fare della nostra esistenza un bel progetto è una cosa.
Orientare la nostra vita sui grandi valori altruistici della solidarietà, della pace, del bene, può essere una bella cosa, ma non è la vocazione.
È, appunto, un’altra cosa.

(MARKO IVAN RUPNIK, Il cammino della vocazione cristiana : di risurrezione in risurrezione, Lipa, Roma 2007, p.43-44)

~

Fregnaccia #2:

Ho avuto dei periodi di farfalle nello stomaco (che «Lilli e il vagabondo, spostateve!»), in cui pensavo che la vocazione fosse:

  1. trovare la mia anima gemella;
  2. stare insieme a lei (cosa che per magia avrebbe sciolto tutti i miei problemi come neve al sole);
  3. vivere felici, per il resto dei nostri giorni, due cuori una capanna, «pucci pucci bau bau»

Per spazzare via quest’altra idea (sbagliata) di vocazione, non è servito Rupnik…

anima gemella

~

Fregnaccia #3:

Infine (e questa è la cosa che più mi ha fatto soffrire) in alcuni momenti della mia vita ho pensato che la vocazione fosse qualcosa che «vuole Dio» a cui io devo obbedire controvoglia:

Ho incontrato molte persone buone e devote, che volevano compiere la volontà di Dio… Ma la pensavano sempre come qualcosa di separato da loro, che arrivava come dall’esterno, e a cui loro si dovevano sottomettere.
Si tratta di un errore… di un errore gravissimo!

(MARKO IVAN RUPNIK, Il cammino della vocazione cristiana : di risurrezione in risurrezione, Lipa, Roma 2007, p.81)

2 • Finire con il culo per terra

Ora.

Non so se sia un assioma.

Ma c’è una cosa che accomuna le vita di tutte le persone che hanno trovato la propria vocazione (a prescindere dal fatto che si siano sposate, consacrate a Dio, etc.)…

…tutte queste persone (in un preciso momento della loro vita) sono finite con il culo per terra!

E cos’è successo in quel momento?

Sono state chiamate (*).

La parola «vocazione» significa proprio questo: qualcun «Altro» che ti chiama; non ci si auto-chiama! (*)

E qual è il momento migliore in cui poter percepire questa voce? (*)

Qual è l’occasione in cui si può essere più sicuri del fatto che questa chiamata non è una mia suggestione, ma qualcosa che viene da Dio? Che non è un tentativo di auto-convincermi che una strada è per me? (*)

(*) (Spero sia superfluo sottolineare che quando uso espressioni come «sono state chiamate», «percepire una voce», etc. intendo in senso analogico! Dio è libero di mandare tutti gli «angeli Gabriele» che vuole… però – normalmente – ci “parla” attraverso le vicende quotidiane della nostra vita)

La risposta è semplice: quando ho finito le energie, le risorse, le idee, le forze, la speranza:

Questo grande maestro della vita interiore che è sant’Ignazio di Loyola fa vedere che la ‘chiamata del Re’ – come lui la chiama – ha luogo quando la persona si trova nell’inferno, cioè meditando una vita senza Dio.
Quando, attraverso l’intelligenza, i sentimenti e addirittura i sensi corporali, la persona prende coscienza della situazione soffocante, senza uscita, buia tanto da fare raggelare il cuore, nella quale si trova, è proprio lì, in quella situazione che con il desiderio giusto può alzare dal cuore un’invocazione, una preghiera di aiuto, di salvezza.
È allora che si rende conto, in un modo esperienziale e razionale allo stesso tempo, che Dio in persona la chiama.
[…]
Ma anche qui bisogna fare una distinzione. Può essere che la redenzione che io sperimento non sia immediatamente visibile nella concretezza della vita.

(MARKO IVAN RUPNIK, Il cammino della vocazione cristiana : di risurrezione in risurrezione, Lipa, Roma 2007, p.58-59)

La vocazione non è avere pensieri del tipo: «Quanto mi piace disegnare! Questa è proprio la mia vocazione!» – infilando Gesù da qualche parte in questo ragionamento, come se fosse un soprammobile, per stare a posto con la coscienza.

La vocazione non è neanche: «Magari ti chiamerò “Trottolino amoroso”, “Dudu dadadà”!».

Non è: «Volevo fare la veterinaria da quando ho cinque anni!».

realizzare sogni

No!

La vocazione è Cristo che mi tira fuori dalla morte in cui mi sono cacciato, che mi tira fuori dalla mia “tomba” come ha fatto con Lazzaro.

3 • Staccati dalla fonte, non si può produrre niente

Se la vocazione si realizza a partire da Cristo che mi tira fuori dal mio sepolcro, si può dedurre il seguente corollario:

«Senza Cristo non esiste vocazione»

Mi rendo conto che questa frase è un po’ urticante… lo stesso Rupnik, dopo aver spiegato cos’è la vocazione, aggiunge:

Soprattutto mi immagino la rabbia e il rigetto che sentire questi discorsi potrebbe provocare in chi non ha fede…

(MARKO IVAN RUPNIK, Il cammino della vocazione cristiana : di risurrezione in risurrezione, Lipa, Roma 2007, p.63)

Se però siamo onesti, queste parole non sono più dure di molte altre pronunciate dallo stesso Gesù… per esempio:

«Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla».
(Gv 15,5)

vocazione sacerdoti petalosi

Anche ragionando con una semplice logica mercantile, si arriva a capire che, se si vive staccati dalla fonte, se siamo il tralcio caduto dalla vite, non possiamo produrre niente.
E, se casomai si produce qualcosa, per questo si vorrebbe ricevere un premio, perché percepiamo quanto abbiamo fatto come un atto eroico, come qualcosa di meritevole.
[…] se non ho ricevuto niente e cerco di spremere da me stesso la bontà, l’amore, ecc., esigo che l’altro mi ridia qualcosa in cambio della mia fatica.

(MARKO IVAN RUPNIK, Il cammino della vocazione cristiana : di risurrezione in risurrezione, Lipa, Roma 2007, p.61-62)

4 • La vocazione è incompatibile con l’auto-affermazione

Rupnik insiste molto sul fatto che la vocazione è incompatibile con l’auto-affermazione:

Una realtà dalla quale siamo oggi segnati è che ciascuno di noi ha le sue idee, i suoi progetti, i suoi interessi che vuole realizzare, portare avanti, in un desiderio di autoaffermazione che implica anche l’essere originali a tutti i costi, ma difficilmente si è capaci di accettare la proposta di un altro, di entrare in un’altra logica, di assumere un mandato.
E la missione si compie proprio attraverso l’essere mandati.
[…]
Se la vocazione consiste nell’amore del Padre, è impossibile rivelare questo amore affermando sé stessi. Neanche se questo principio autoaffermativo viene camuffato sotto vesti di generosità e di altruismo.

(MARKO IVAN RUPNIK, Cerco i miei fratelli : lectio divina su Giuseppe d’Egitto, Lipa, Roma 1998, p. 34)

Se non si costruisce in Lui e a partire da Lui, il desiderio di finire sotto i riflettori avrà sempre la meglio (che se ne sia consapevoli o meno):

vocazione autocompiacimento

L’auto-affermazione non è la strada…

Realizzare la mia vocazione significa guardarmi come Dio mi ha guardato il giorno del mio battesimo: stare di fronte ai miei desiderî, la mia volontà, i miei interessi, l’ambiente, i genitori, gli amici, la Chiesa e vedere che cosa potrei fare di tutto questo alla luce di Quello sguardo (cfr. MARKO IVAN RUPNIK, Il cammino della vocazione cristiana : di risurrezione in risurrezione, Lipa, Roma 2007, p.82).

Meglio ancora (scusatemi per le parolacce che sto per usare) realizzare la mia vocazione significa diventare fenomenologicamente (cioè nell’aspetto) ciò che già nel battesimo sono diventato ontologicamente (cioè nella mia essenza): figlio nel Figlio.

Non è qualcosa di esterno a me.

È qualcosa che, dal giorno del Battesimo, è più interna a me di me stesso (cfr. AGOSTINO, Confessioni, III,6,11): come una statua, che è già contenuta nel blocco di marmo, ancor prima che lo scultore lo lavori.

5 • Non c’è vocazione senza morte

C’è un aspetto buffo (per non dire drammatico) che accompagna molti dei racconti delle vocazioni contenuti nell’Antico Testamento: la paura.

Una terribile, maledetta, enorme paura.

Mosè, Geremia, Gedeone… un sacco di personaggi, di fronte al momento in cui il Signore li chiama, temporeggiano, si scherniscono, fanno un mezzo passetto indietro, controbattono che forse Dio si è sbagliato:

[Geremia] «Ahimè, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono giovane»
(Ger 1,6)

[Mosè] «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?»
(Es 3,11)

[Mosè] «Ecco, non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce»
(Es 4,1)

[Mosè] «Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono stato né ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua»
(Es 4,10)

[Gedeone] Gedeone replicava all’angelo che lo inviava a liberare il popolo oppresso: «Perdona, mio signore: come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di Manasse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre»
(Gdc 6,15)

paura

Come mai tutta questa paura?

Beh…

Sia nelle storie dei personaggi della Bibbia…

…sia nelle vite dei santi…

…sia nella nostra quotidianità…

…c’è un elemento in comune:

Si può affermare che la «vocazione» è appello a uscire dal ventre per camminare verso la morte.
[…]
La difficoltà di accettare, cioè di riconoscere come sensato, un tale ordine si manifesta con un’istintiva ribellione del corpo vivente, al quale ripugna la prospettiva del morire.
L’uomo chiamato da Dio ha paura.
La paura è una reazione corporea, alla quale si associa spesso l’atto di coscienza, che di fronte alla minaccia in atto cerca il modo più conveniente (e più ragionevole) di sfuggirla.
[…] l’elezione divina non elimina la morte, anzi l’assume come sua mediazione necessaria. La coscienza della vocazione viene a coincidere con la coscienza del proprio destino, destino di «agnello condotto al macello».

(PIETRO BOVATI, «Così parla il Signore» – Studi sul profetismo biblico, EDB, Bologna 2008, p. 94)

E dato che spesso le persone che fanno paura sono proprio quelle da cui si è mandati (cfr. ad esempio Ger 1,8.17), la paura è perfettamente naturale.

Le obiezioni, le arrampicate sugli specchi, i tentativi di divincolarsi sono legittimi (e anzi, a volte persino doverosi).

Come mai la paura? Perché la persona chiamata immagina di percorrere il cammino della propria vocazione senza Dio

…ed è una paura sensata perché Senza Dio il fallimento è certo: Mosè, Geremia, Benedetto da Norcia, Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola, …nessuno di loro avrebbe fatto ciò che ha fatto senza la grazia di Dio.

Per assumere una vocazione è necessaria la fede: il credere in sé stessi oppure il ritenere che si è soli e impotenti sono le due facce di una medesima mancanza di abbandono in Dio […].

(PIETRO BOVATI, «Così parla il Signore» – Studi sul profetismo biblico, EDB, Bologna 2008, p. 98-99)

Conclusione

Insomma, per riassumere:

[…] il clima dell’epoca moderna, così concentrata sul soggetto, sulla razionaliltà umana, sulla prospettiva umana, ci fa pensare alla vocazione piuttosto nei termini di un progetto di vita, di un’autoprogrammazione, lasciando così che ci sfugga il fatto che si tratta di un incontro, di qualcuno che ci raggiunge chiamandoci, della risposta a questa chiamata, ma che tale risposta non è una decisione presa, piuttosto un consegnarci, un affidarci, un reale spostamento di noi stessi, uno sradicarci […] dal nostro io chiuso e concentrato su sé stesso, fino a trapiantarci in Cristo.

(MARKO IVAN RUPNIK, Alla mensa di Betania : la fede, la tomba e l’amicizia, Lipa, Roma 2004, p.39)

E niente.

Passo e chiudo con un passo de I promessi sposi di Alessandro Manzoni (1785-1873):

Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri.
[…]
Giacché, come diceva spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello.

(ALESSANDRO MANZONI, I promessi sposi, Capitolo XXV)

sale

(Estate 2021)

Fonti/approfondimenti

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