«Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei»

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1 • Con le brache calate!

Il titolo di questa paginetta non è farina del mio sacco, ma una citazione di Ernst Jünger (1895-1998), scrittore e filosofo tedesco:

Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei.

(ERNST JÜNGER, Sul dolore, in Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997, p.139)

Oggi gioco subito a carte scoperte.

O meglio.

Mi calo le brache, urbi et orbi.

*RULLODITAMBURI*

Io ho un pessimo rapporto con il dolore!

Sono veramente una schiappa.

Una mezza sega.

Una pippa nefanda.

E non intendo (solo) col dolore fisico.

Intendo anche (e soprattutto) con quello emotivo.

In altre parole…

bestemmie e videogiochi

2 • L’algofobia, ovvero il «timore ossessivo del dolore»

Io credo che una delle invenzioni più rivoluzionarie degli ultimi due secoli sia stata l’anestesia.

Altro che i cellulari, gli aerei o i social network!

Provate a farvi amputare una gamba senza anestesia…

O a sottoporvi a un’appendicectomia senza anestesia…

O a farvi togliere un neo senza anestesia… (*)

cacarella

Insomma: viva l’anestesia! Non tornerei MAI a duecento anni fa!

Bene.

Fatta questa doverosa premessa…

…l’estate scorsa ho letto un libro molto interessante del filosofo sudcoreano Byung-chul Han (classe ’59).

Han esordisce dicendo che:

Il nostro rapporto col dolore rivela in quale società viviamo.
Le sofferenze sono cifre di un codice: contengono la chiave per comprendere ogni società.
Quindi chiunque voglia criticare la società deve effettuare un’ermeneutica del dolore.

(BYUNG-CHUL HAN, La società senza dolore: Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2021, versione Kindle, 2%)

Che vuol dire «ermeneutica del dolore»?

«Ermeneutica» significa «interpretazione», «analisi approfondita», «indagine per capire qualcosa di più».

E cosa emerge dall’analisi di Han?

Emerge che:

Oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore.
Anche la soglia del dolore crolla con rapidità. L’algofobia ha come conseguenza un’anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa.

(BYUNG-CHUL HAN, La società senza dolore: Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2021, versione Kindle, 3%)

Famo a capisse.

Han non è un ingenuo.

Non serve una laurea in filosofia per essere tutti d’accordo sul fatto che non vorremmo mai tornare indietro nel tempo a quando non c’era l’anestesia.

La sua critica non riguarda l’anestesia clinica, ma quella culturale.

Cioè?

Cioè quell’atteggiamento per cui un po’ tutti – in modo più o meno cosciente – ci rimbecilliamo con millemila svaghi e nascondiamo la nostra inquietudine e i nostri problemi sotto al tappeto.

Che è un po’ quello che diceva don Fabio Rosini:

[…] la nostra società moderna intontita da cascate di rimedi narcotizzanti, quelli fisici e soprattutto quelli psicologici, è una società assuefatta ai suoi mali, che non nota il suo dolore perché sepolto sotto uno tsunami di distrazioni.

(FABIO ROSINI, Solo l’amore crea : le opere di misericordia spirituale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016, versione Kindle, 54%)

La cosa “buffa” è che più alimentiamo questo meccanismo, più diventiamo intolleranti nei confronti del dolore.

Più scappiamo dal dolore, più lo troviamo insopportabile:

Proprio nell’epoca moderna in cui l’ambiente c’infligge sempre meno dolore, i nostri ricettori del dolore paiono diventare sempre più sensibili.
Si sviluppa un’ipersensibilità.
È proprio l’algofobia a renderci sensibilissimi al dolore.
Può persino indurre sofferenza.
Il corpo disciplinato che deve difendersi da molti dolori provenienti dall’esterno ha una bassa sensibilità. A caratterizzarlo è un’intenzionalità ben diversa. Esso non si occupa di sé stesso, anzi: è proiettato verso l’esterno. La nostra attenzione è invece rivolta in ampia misura verso il nostro corpo.
[…] Questa introspezione narcisistica e ipocondriaca è con tutta probabilità corresponsabile dell’ipersensibilità.
La favola di Andersen La principessa sul pisello si lascia leggere come una parabola sull’ipersensibilità del soggetto tardo moderno. Un pisello sotto il materasso provoca tanti dolori alla futura principessa da farle passare una notte in bianco.
Probabile che le persone al giorno d’oggi soffrano della «sindrome della principessa sul pisello». Il paradosso di questa sindrome del dolore consiste nel fatto che si soffre sempre di più a causa di cose sempre più piccole.

(BYUNG-CHUL HAN, La società senza dolore: Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2021, versione Kindle, 36-37%)

Se volessimo sintetizzare l’analisi di Han con un meme, potrebbe essere qualcosa tipo:

meme dolore

3 • Nascondere la polvere sotto al tappeto

Il mese scorso citavo Blaise Pascal che parlava del «divertissement»: con questa parola, il filosofo francese intendeva quella strategia – adottata da molte persone – che consiste nello svagarsi e nel distrarsi dai problemi della vita, fino ad arrivare inavvertitamente alla morte.

«Di-vertirsi», cioè (etimologia alla mano) «volgersi altrove».

Il pedagogista e filosofo austriaco Ivan Illich (1926-2002) scriveva che:

In una società anestetizzata occorrono stimoli sempre più forti perché si abbia il senso d’esser vivi.
La droga, la violenza e l’orrore diventano degli stimolanti che, in dosi sempre più potenti, riescono ancora a suscitare un’esperienza dell’Io.

(IVAN ILLICH, Nemesi medica : l’espropriazione della salute, Mondadori, Milano 2004, p.166)

Molte persone in occidente vivono in questo modo:

  • passano la settimana in apnea, pensando: «che vita demmerda, che lavoro demmerda, che colleghi demmerda, etc.»
  • …in attesa del sabato sera – dell’ora d’aria – per ubriacarsi di piaceri epidermici, provando a dimenticare (almeno per qualche ora) le inquietudini quotidiane.
distrarsi dal dolore

Ora comunque la sparo ancora più grossa.

Nel contesto culturale in cui viviamo, il dolore non non è solo «qualcosa a cui non vogliamo pensare»

…ma è qualcosa di cui ci vergognamo.

  • A lavoro: se soffro o sono preoccupato, di sicuro le mie performance saranno al di sotto delle aspettative… e se il mio valore è dato dalla mia capacità di ottimizzare tempo ed energie, è meglio nascondere il mio dolore – fisico o psicologico che sia;
  • Sui social: secondo la regola per cui devo mostrare sempre il mio «lato migliore», guai a non essere instagrammabili! Se mostro una versione disneyzzata della mia vita, ricevo più like!
  • Nella vita privata: non so voi, ma se mi avessero dato un euro tutte le volte che ho pensato: «Se mostrerò le mie fragilità alle persone che mi vogliono bene, ho paura di non essere più amabile ai loro occhi, e di rimanere solo!»… mi sarei potuto comprare il Molise.

~

In analisi transazionale (la scuola di psicoterapia della mia psicologa) c’è un concetto molto interessante, che è quello di «spinta».

Una spinta è una “voce interiore” (che abbiamo ereditato in famiglia, dall’ambiente, dal contesto culturale) che corrisponde ad un “comando” che ci auto-imponiamo:

  • «Sbrigati!»
  • «Compiaci gli altri!»
  • «Sii perfetto!»
  • «Sii forte!»
  • etc.

Cosa si nasconde dietro alle spinte?

Si nasconde il messaggio interiore: «Io vado bene, SE…»:

  • «…SE non deludo mai gli altri!»
  • «…SE non chiedo aiuto a nessuno!»
  • «…SE me la cavo da solo!»
  • «…SE sono perfetto!»

Ecco.

Io credo che una delle spinte più forti del contesto in cui viviamo è: «Io vado bene, SE sono felice».

E viceversa:

  • «SE sono triste, non vado bene!»
  • «SE chiedo aiuto, non vado bene!»
  • «SE mostro agli altri le mie ferite, non vado bene!»
  • «SE soffro, non vado bene!»

E quindi nascondiamo il dolore sotto al tappeto.

4 • Il problema è dentro o fuori?

Ho già detto più volte (*) che la psicoterapia è una cosa santa e benedetta!

(*) (in particolare quando parlavo delle ferite)

Fare psicoterapia è stata una delle scelte più felici che io abbia preso negli ultimi anni.

Però – anche su questo aspetto – il libro di Han mi ha messo una pulce nell’orecchio molto interessante.

Quale?

Tagliando con il macete (mi perdonino gli storici, i sociologi e gli psicoterapeuti)…

…lungo la storia dell’uomo, tutte le volte che le condizioni sociali sono diventate opprimenti, cosa è successo?

È successo che le persone si sono ribellate: dalla «rivolta della plebe» all’epoca di Menenio Agrippa (nel VI secolo a.C.) fino alla rivoluzione francese, la causa del malcontento veniva cercata all’esterno:

  • povertà
  • condizioni di vita indegne
  • troppe tasse
  • salarî troppo bassi
  • troppe ore di lavoro

Nel Medioevo, ad esempio, i contadini scendevano in piazza, armati di forconi…

«Non vogliamo più fare i contadini!» – urlavano ai nobili…

rivolta dei contadini

Oggi invece, spesso facciamo l’opposto: non cerchiamo un problema “fuori di noi”, ma “dentro di noi”.

Oggi, se qualcuno è stressato, va dallo psicoterapeuta (*).

(*) (c’è pure qualcuno che si lamenta sui social… o che partecipa agli scioperi della CGIL… ma – tendenzialmente – sono iniziative più inutili di un culo sul gomito…)

Insomma: il contesto culturale ci spinge all’introspezione (cfr. BYUNG-CHUL HAN, cit., 17%).

Siamo portati a pensare (spesso senza rendercene conto): «il problema non è nella società, ma nella mia testa!».

Abbiamo spostato il focus dalle cause (lavoro, vita privata, società e altre condizioni esterne) ai sintomi (ciò che accade nella mia psiche).

Come scrive Han:

A salire sul palco non sono i rivoluzionari, bensì i trainer motivazionali che impediscono il diffondersi del malumore o anche della rabbia.

(BYUNG-CHUL HAN, La società senza dolore: Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2021, versione Kindle, 18)

5 • Chi porta il peso del benessere che ci circonda?

Mia sorella ha una figlia di due anni e mezzo.

Da quando ha scoperto che sarebbe diventata mamma, si è letta un sacco di libri su «come prepararsi alla maternità», «come educare un bambino piccolo», «cosa dire», «cosa non dire», «cosa fare», «cosa non fare», etc.

Uno dei temi più ricorrenti di questi libri è questo: non censurare le emozioni negative.

Non dire a un bambino:

  • «I bravi bambini non piangono!»
  • «Se non smetti di piangere, mamma non ti vuole più bene!»
  • «Non lamentarti, sennò prendi il resto!»

…ma provare ad essere empatici con il suo stato d’animo.

esprimere la tristezza

Insomma, a livello pedagogico, mi sembra che pian piano stia emergendo una tematica molto importante: tematizzare il dolore.

A livello sociale invece mi sembra che accada l’esatto contrario.

In che senso?

Nel senso che noi «occidentali dalla pancia piena» corriamo il rischio di non accorgerci delle ingiustizie che ci circondano.

Non so voi, ma io purtroppo mi sono “abituato” al fatto che – tutto sommato – la mia vita “fili liscia” (ho un tetto sulla testa, due pasti al giorno, un letto in cui dormire, qualche buon amico, etc.).

Mentre invece:

Se abbiamo di fronte agli occhi una situazione di largo benessere, siamo senz’altro autorizzati a domandarci chi ne porta il peso. Di norma non si dovrà fare molta strada per rintracciare il dolore, e scoprire che anche nel pieno godimento della propria sicurezza l’individuo non ne è mai del tutto al riparo.

(ERNST JÜNGER, Sul dolore, in Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997, pp.149 e ss)

Che vuol dire che «qualcuno porta il peso del mio benessere»?

Facciamo un esempio molto sciocco.

Io sto scrivendo questa paginetta da un computer.

E probabilmente voi la state leggendo sul vostro cellulare.

Quindi, sia io che voi, stiamo utilizzando dispositivi elettronici che contengono columbite e tantalite (la cui miscela è nota come Coltan).

Bene.

Se avete 15 minuti di tempo, andatevi a vedere in che modo si estrae il Coltan in Congo.

Conclusione

Spesso ho sentito dire (anche da persone “studiate”) che «i cristiani…»:

  • «…”venerano” la sofferenza»
  • «…vanno in cerca del dolore»
  • «…hanno un culto “dolorista” della croce»
  • …e variazioni sul tema.

Onestamente, mi sembrano obiezioni abbastanza stupide.

Come se le due alternative, nella vita, fossero queste:

  • accettare la sofferenza
  • rifiutare la sofferenza

Non so voi, ma io ho imparato (a mie spese) che le alternative sono:

  • accogliere e (sop)portare la sofferenza che mi capita
  • venire schiacciato dalla mia sofferenza

Come giustamente sintetizzava Joseph Ratzinger quando era ancora cardinale:

L’uomo che non è disposto ad accettare la sofferenza e il dolore si rifiuta alla vita. La fuga dal dolore è fuga dalla vita. La crisi del mondo occidentale è dovuta anche a un’educazione e a una filosofia che vorrebbero liberare l’uomo ignorando la croce, contro la croce e quindi contro la verità.

(JOSEPH RATZINGER, Escatologia: morte e vita eterna, Cittadella Editrice, Assisi 2008, p.109)

La fede cristiana non è «dolorista».

La fede cristiana è realista.

sale

(Inverno 2022-2023)

Fonti/approfondimenti
  • BYUNG-CHUL HAN, La società senza dolore: Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2021
  • ERNST JÜNGER, Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997
  • FABIO ROSINI, Solo l'amore crea : le opere di misericordia spirituale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016
  • JOSEPH RATZINGER, Escatologia: morte e vita eterna, Cittadella Editrice, Assisi 2008

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