1 • Solo gli idioti non hanno dubbî
Conosco un sacco di gente che ha un’idea abbastanza grottesca dei cristiani.
Persone convinte del fatto che:
- «…chi crede in Dio non ha mai dubbi, perché la religione gli fornisce già tutte le risposte preconfezionate»
- «…i cristiani – accettando i dogmi che la Chiesa impone ai fedeli – vivono in una bolla di certezze assolute che li rende impermeabili al pensiero critico e alle domande esistenziali»
- «…le persone religiose delegano ogni responsabilità alla volontà divina»
- etc.
Che dire?
Mi sembrano stereotipi abbastanza semplicistici e caricaturali.
Questa visione della fede non solo ignora la profondità e la varietà dell’esperienza religiosa di ciascuna persona…
…ma anche ciò che la Chiesa stessa insegna a riguardo.
A tal proposito, qualche anno fa il sacerdote romano don Giuseppe Forlai (classe ’72) scriveva queste righe:
Siamo liberi di non credere a patto di essere dei veri non credenti al di là dei luoghi comuni.
Siamo liberi di non credere a condizione di aver capito che avere fede non vuol dire sapere tutto o saper rispondere a tutto.
Nello stesso tempo siamo dei credenti schietti se lasciamo al dubbio la possibilità di visitarci.
(GIUSEPPE FORLAI, Incontrare l’Inatteso : vita cristiana per gente perplessa, Paoline, Roma 2010, p.30)
La vita di un cristiano non è un blocco monolitico di certezze, ma un’esperienza viva.
Aperta al dubbio.
Alla ricerca.

Insomma, la fede cristiana non consiste in un modo di vivere ossificato.
Non è una prigione.
Una trappola.
Una corazza chitinosa.
La vita in Cristo è un cammino fatto di umiltà.
Di mansuetudine di fronte alla complessità della realtà.
Di povertà di spirito.
Tutto questo – se possibile – anche con un pizzico di ironia.
Come scriveva Luciano De Crescenzo (1928-2019) in un suo saggio del 1992:
«Chi in vita sua non ha mai avuto dei dubbi? Solo uno stupido. […]»
«Ne sei proprio scuro?»
«Non ho alcun dubbio»
(LUCIANO DE CRESCENZO, Il dubbio, Oscar Mondadori, Milano 2011, p.49-50)
2 • Il dubbio è una condizione desiderabile?
Qualche anno fa avevo scritto una pagina del blog in cui parlavo della gnoseologia, cioè di quella branca della filosofia che si interroga su quali siano le possibilità e i limiti entro cui una persona può conoscere qualcosa.
Nella pagina riportavo un esempio un po’ sciocco – usato spesso nei libri di filosofia:
«Come faccio a sapere se l’erba è veramente verde? Sono sicuro che i miei sensi non mi stiano ingannando? Forse io e te diciamo che «l’erba è verde», ma magari tu vedi un colore diverso dal mio… come posso essere sicuro delle mie conoscenze?»
Queste domande, a bruciapelo, forse possono sembrare un po’ troppo teoriche e sconnesse dalla realtà.
Pippe mentali di nerd in crisi esistenziale…

In realtà, a pensarci bene, il problema di essere veramente sicuri di qualcosa non riguarda solo il colore dei fili d’erba o il sapore dell’acqua…
…ma pervade ogni aspetto della nostra vita:
- Come faccio ad essere sicuro che la facoltà che sceglierò dopo il liceo sarà quella giusta?
- Se mi licenzio dal mio lavoro e vado a fare quella-cosa-lì sarò più felice o me ne pentirò?
- La persona con cui sono fidanzato è «quella giusta»?
- Posso avere la certezza che Dio esista? O è solo un’ipotesi che mi tengo stretta?
- Il sogno che inseguo da anni ha senso, o sto solo correndo dietro a un’illusione?
- Rimanere in questa città è la scelta migliore, o sono solo spaventato all’idea di cambiare?
- Le amicizie che ho sono davvero sincere, o mi sto accontentando?
- Sto vivendo la vita che voglio, o mi sto lasciando trascinare da quello che gli altri si aspettano da me?
Insomma… altro che «roba teorica»: qui parliamo di domande che ti prendono a pizze in faccia mentre cerchi di capire chi sei e dove stai andando.
Come se ne esce?
A cosa ci si aggrappa?
Come si vincono i dubbî sulle scelte che definiscono il nostro futuro, sulle relazioni che ci tengono in piedi, sull’esistenza in generale?
Pavel Florenskij (1882-1937) è stato un filosofo e matematico russo, nonché sacerdote cristiano ortodosso.
Nel 1914 ha scritto «La colonna e il fondamento della verità», un’opera monumentale – forse uno dei momenti più alti della teologia russa.
Il libro è suddiviso in dodici lettere, ciascuna delle quali contiene una riflessione articolata su un determinato problema.
La seconda lettera della sua opera è dedicata al dubbio.
In questa lettera/capitolo, Florenskij affronta con rigore la questione della fragilità della conoscenza umana, nel tentativo di trovare un criterio di conoscenza attendibile:
La questione dell’attendibilità della verità si riduce a quella di trovare il criterio; questo è l’apice del sistema ed è tutta la sua forza proibitiva.
(PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.33)
Florenskij parte da un fatto abbastanza immediato: ciò che sappiamo (o pensiamo di sapere), lo sappiamo perché:
- o ci appare chiaro di per sé, per la sua evidenza;
- oppure è il frutto di un ragionamento che poggia su qualcos’altro, che a sua volta poggia su un altro ragionamento, che a sua volta… fino ad arrivare ad una base di evidenza (cfr. PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.34)
Qui però casca l’asino.
Qualcuno di voi infatti potrebbe chiedere:
- «Sale, scusami, ma che significa “evidente”?»
- «Ciò che è evidente per me potrebbe non esserlo per te… o viceversa!»
- «L’evidenza non basta a darci una certezza solida!» (cfr. PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.36-37)
Che dire?
Da un lato, sono d’accordo con le vostre obiezioni…
…dall’altro lato però, c’è un problema.
Non c’è nulla di male nel voler trovare una base «evidente» su cui fondare le nostre conoscenze…
…il problema però è che – nel momento in cui proviamo a scavare in profondità alla ricerca di qualcosa di «evidente» – ci rendiamo conto che la questione non è affatto semplice.
Non so se ricordate, ma nella pagina del blog che ho citato sopra – quando parlavo del senso comune – avevo proposto questo “gioco”:
Scegliete una parola del vocabolario italiano e provate a darne una definizione.
Dopodiché, cercate di dare una definizione dei termini che avete usato nella definizione precedente.
Proseguite in questo esercizio per 2-3 volte.
Vi renderete conto che, a un certo punto, arriverete a usare delle parole dal significato così immediato e naturale che – per definirle – serviranno giri di parole più articolati, spesso composti da termini già incontrati lungo il percorso.
Facciamo un esempio:
Prendiamo la parola «cane».
Se dovessi definirla, potrei dire: «un animale a quattro zampe che abbaia».
Poi potrei provare a dare una definizione della parola «animale».
Potrei dire che un animale è un «essere vivente che si muove e respira».
Poi potrei definire «essere vivente».
…
Continuando a ritroso, ci imbattiamo in termini come «essere», o «vivente», o parole ancor più “elementari”, che sembrano così intuitive da risultare quasi impossibili da spiegare senza usare perifrasi che complicano ciò che sembrava semplice, o senza utilizzare parole già incontrate.
Questo esempio ha a che fare con l’epistemologia – ovvero con lo studio di come sappiamo le cose, e di cosa fa sì che quel sapere sia affidabile.
Proviamo però a fare un altro esempio, spostandoci su un piano più esistenziale:
Riprendiamo una delle domande che ho scritto sopra: «Come faccio a sapere se la persona con cui sono fidanzato è “quella giusta”?».
Anche in questo caso, si potrebbero fare molte domande a cascata: cosa significa «la persona giusta»? Forse «la persona con cui sto bene» oppure «la persona che mi completa»? Qui il problema non è tanto definire queste parole, quanto capire se possiamo fidarci di ciò che sappiamo di quella persona e di ciò che proviamo per lei:
- «Che ne so che poi non mi tradirà?»
- «E se tra qualche anno cambiasse e non fosse più la stessa persona?»
- «Come faccio a essere sicuro che i suoi sentimenti siano sinceri?»
- «E se sto solo vedendo quello che voglio vedere, e non com’è davvero?»
- «Che garanzie ho che non mi deluderà quando le cose si faranno difficili?»
- «E se le mie paure di sbagliare mi stessero accecando?»
Insomma.
A furia di farci domande – che di per sé non sono domande sbagliate – tante volte corriamo il rischio di spingerci in una nebbia sempre più fitta.

Di fronte a questo loop, molte persone tagliano la testa al toro e sospendono il proprio giudizio:
- «Non so se questa persona è quella giusta: rimarremo a convivere per tutta la vita, senza mai sposarci»
- «Non so se Dio esiste o no: rimarrò agnostico per tutta la vita»
- «Non so se valga la pena avere figli in un mondo così incerto: meglio rimandare all’infinito»
- «Non so se posso fidarmi davvero dei miei amici: terrò tutti a distanza senza mai aprirmi del tutto»
- «Non so se inseguire i miei sogni valga il rischio: continuerò con la solita routine senza decidermi»
- «Non so se dicendo ciò che penso peggiorerò la situazione: preferisco tacere e non espormi mai»
Per indicare questo atteggiamento, Florenskij utilizza una parola ben nota in filosofia.
Si tratta dell’epoché (ἐποχή), parola greca che indica la sospensione del giudizio (da ἐπί, epi, che significa «su», «sopra», «presso» + il verbo ἔχω, echo, che significa «avere», «tenere», «trattenere»).
L’epoché è un concetto chiave dello scetticismo (antico e moderno).
In teoria, dovrebbe consistere nel mettere tra parentesi le proprie convinzioni sul mondo per analizzarlo in modo neutrale o per evitare conclusioni affrettate…
…in pratica, però, molte persone fanno dell’epoché uno “stile di vita”, nel quale si finisce per astenersi in modo definitivo dal prendere posizione su tante questioni esistenziali molto importanti.
Cosa intendo?
Provo a fare un esempio sciocco.
Negli ultimi anni, ho letto tanti libri, ascoltato tante conferenze e talk (dal vivo o su YouTube), assistito a tante catechesi, partecipato a varie tavole rotonde, etc..
In molte di queste occasioni, mi è capitato di sentire professori, filosofi, teologi, pedagogisti, sociologi, sacerdoti, etc. pronunciare queste parole (parola più, parola meno):
«Non sono qui per darvi risposte! Al massimo per farvi altre domande!»
Vi confesso che – fino a qualche anno fa – quando sentivo frasi come questa, pensavo: «Dai, mi sembra un modo onesto di introdurre un discorso! Che persona umile e modesta!».
Oggi, invece, affermazioni simili a questa mi innervosisco un pochino… per due motivi:
- il primo motivo è che – non so voi – ma io non voglio «altre domande», io voglio «risposte»! Se non siete sicuri delle vostre tesi, potete sempre dire che la risposta a cui siete giunti «non è definitiva» o che «dovete ancora scavare» o altri modi per dirmi che «siete in cammino come me»;
- il secondo motivo è che questa frase in realtà è un artificio retorico: le persone – quando salgono su un palco, su un ambone o quando prendono in mano un microfono – voglioni eccome dare risposte! Dicendo questa frase, vogliono semplicemente far passare le proprie risposte come se fossero dei messaggi subliminali.
Cioè.
Siamo onesti.
Secondo me, dovremmo riconoscere tutti che nella vita – quando le cose si fanno serie – non cerchiamo «altre domande», ma «una risposta».
Dovremmo riconoscere tutti che il cuore dell’uomo non ha pace finché non trova la verità.
Come scriveva il filosofo Enrico Berti (1935-2022):
È infatti un ipocrita chi cerca solo per cercare, perché l’autentica ricerca, quella condotta sinceramente, è una ricerca che ha per fine il trovare. Si cerca per trovare, perché si ha a cuore di trovare qualcosa, perché si desidera veramente di sapere, perché si soffre di non sapere e si vuole sapere. Il domandare è bellissimo, è segno di onestà intellettuale, di umiltà, di semplicità, ma la domanda è sincera solo se è fatta per ottenere una risposta, solo se chi domanda è veramente interessato a ciò che domanda, cioè solo se vuole avere la risposta giusta, adeguata, soddisfacente, insomma vera.
(ENRICO BERTI, Invito alla filosofia, La Scuola, Brescia 2011, versione Kindle, 33%)
Il dubbio non è di per sé appagante, non è tranquillizzante, anzi – se è sincero, e non ostentato – è piuttosto inquietante, dunque non lo si può desiderare per sé stesso, per rimanervi a tempo indeterminato.
(ENRICO BERTI, Invito alla filosofia, La Scuola, Brescia 2011, versione Kindle, 33%)
3 • Se il dubbio non porta pace… come se ne esce?
Facciamo un breve recap:
- tutti noi cerchiamo la verità – dai piccoli interrogativi sulla nostra esistenza, fino alla risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto (cit.);
- per trovare una risposta alle nostre domande, andiamo in cerca di evidenze;
- ma dato che spesso le cose non sono affatto evidenti, tante volte sospendiamo il giudizio e cadiamo nell’epoché.
Arrivati a questo punto del ragionamento, Florenskij pone questa domanda:
«Cosa prova il nostro cuore quando sospendiamo il giudizio sulle nostre domande?
Siamo in pace?
Va tutto bene?
La vita trascorre serena, come se niente fosse?
Raggiungiamo l’atarassia – cioè quello stato di calma interiore e assenza di turbamenti emotivi di cui parlavano i filosofi stoici e gli epicurei?
Riusciamo a convivere con questa spada di Damocle che pensola sulla nostra testa?»
(Non sono le parole esatte del filosofo, ma una mia parafrasi; per i curiosi, vi rimando a PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.43-44)
Rispondete voi stessi alle domande di Florenskij.
Anzi.
Prima che rispondiate.
Per comodità, vi riscrivo qui sotto alcune delle domande che ho posto nel precedente paragrafo:
- Come faccio ad essere sicuro che la facoltà che sceglierò dopo il liceo sarà quella giusta?
- Se mi licenzio dal mio lavoro e vado a fare quella-cosa-lì sarò più felice o me ne pentirò?
- La persona con cui sono fidanzato è «quella giusta»?
- Posso avere la certezza che Dio esista? O è solo un’ipotesi che mi tengo stretta?
- Il sogno che inseguo da anni ha senso, o sto solo correndo dietro a un’illusione?
- Rimanere in questa città è la scelta migliore, o sono solo spaventato all’idea di cambiare?
- Le amicizie che ho sono davvero sincere, o mi sto accontentando?
- Sto vivendo la vita che voglio, o mi sto lasciando trascinare da quello che gli altri si aspettano da me?
Come si vive senza avere una risposta a cui aggrapparsi, quando ci si trova davanti ad uno (o più di uno) di questi interrogativi?
La risposta è semplice: si vive male.
A tal proposito, vi riporto le parole del filosofo russo:
Per spiegare questo stato, si immagini un uomo che stia annegando e che si sforzi di afferrare la pietra levigata del molo, che si aggrappi con le unghie, che perda la presa, che si aggrappi di nuovo con pazza disperazione. […]
La situazione dello scettico conseguente è simile; ne provengono non già affermazioni e negazioni, ma spasmi e ingiurie, un arrabbiato pestare i piedi sempre allo stesso posto, un buttarsi da un lato all’altro, una specie di gemito filosofico inarticolato.
Ne proviene poi l’astensione dal giudizio, l’ἐποχή (epoché) assoluta, ma non come rinuncia tranquilla e spassionata al giudizio, bensì come dolore interiore nascosto che fa stringere i denti e tende ogni nervo e muscolo nello sforzo per non urlare e non prorompere in un folle ululato.
Questa chiaramente non è atarassia; è anzi la tortura più crudele che strappa le fibre più profonde dell’essere, il tormento del pirronismo, veramente di fuoco (πῦρ – fuoco).
Una lava infuocata scorre nelle vene, un fuoco nascosto penetra il midollo delle ossa e allo stesso tempo un freddo mortale di assoluta solitudine e morte agghiaccia la coscienza.
[…]
Io non ho la Verità in me, ma l’idea della Verità mi brucia; non ho i dati per affermare che cosa sia la Verità e che io la raggiungerò, ma confessandolo rinuncerei alla sete dell’assoluto, perché accetterei qualcosa di indimostrato.
Tuttavia l’idea della Verità brucia in me come «fuoco divoratore» e la segreta speranza di incontrarla a faccia a faccia incolla la mia lingua al palato; è essa il torrente infuocato che mi ribolle e gorgoglia nelle vene.
(PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.45-47)
Che dire?
Florenskij ha scritto queste parole più di un secolo fa… eppure sembrano scritte l’altro ieri!
Come se ne esce, dunque?
Per proseguire col discorso, provo a fare un’analogia.
Immaginate che la vostra testa sia un computer, allenata a risolvere i problemi della vita facendo calcoli più-o-meno elaborati.
Un calcolo semplice richiede pochi byte di memoria.
Un calcolo complesso ne richiede di più.
Che succede se ci troviamo di fronte ad un calcolo che richiede una RAM maggiore di quella che abbiamo a disposizione nel nostro hardware?

Fuor di ironia.
Che succede se ci troviamo di fronte domande come quelle che ho scritto sopra (ma potete sostituirle con qualsiasi altra domanda esistenziale che vi abbia tenuti svegli la notte, o sulla quale vi siate confrontati con il vostro migliore amico fino a tardi), alle quali non riusciamo a rispondere con i mezzi che abbiamo a disposizione?
Ebbene.
Florenskij fa notare che noi uomini e donne “moderni” – spesso e volentieri – siamo ostaggi dei nostri schemini razionalistici da quattro soldi: sentiamo la necessità di avere tutto sotto controllo, abbiamo un’ossessione per i dati misurabili, una dipendenza dalle risposte immediate, la pretesa di prevedere ogni esito della nostra vita e delle nostre scelte (cfr. Ibidem, p.50).
Invece, per trovare una risposta ad alcune di queste domande, dobbiamo ricorrere a qualcosa che è oltre i limiti del nostro hardware.
Oltre i limiti della nostra piccola RAM.
Oltre i limiti del nostro orizzonte.
A questo punto, qualcuno potrebbe domandare: «Ma scusa, Sale, non è un controsenso uscire dal razionalismo? Noi uomini siamo animali razionali! Come possiamo andare contro la logica?».
Florenskij risponderebbe in questo modo: «È la stessa logica che ti spinge a cercare oltre, quando si accorge che non ce la fa da sola»; è come se l’output del calcolo del tuo computer dicesse: «Io non ho tutte le risposte! Vai, cerca all’infuori dei miei limiti! Ti do io il permesso!» (cfr. Ibidem, p.50)
Come scriveva anche il matematico, fisico, filosofo e teologo francese Blaise Pascal (1623-1662):
Il primo atto della ragione è di riconoscere che un’infinità di cose sono al di là di essa.
(BLAISE PASCAL, Pensieri, BUR Rizzoli, Milano 2013, versione Kindle, 41%, pensiero n.156)
Qualche pagina dopo, Florenskij aggiunge: «Le risposte alle domande più grandi non le troviamo noi con i nostri calcoli, ma ci arrivano da qualcosa – o Qualcuno – che esiste da sé e che non ha bisogno di essere spiegato» (parafrasi mia; cfr. PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.54).
E chi è questo Qualcuno?
È l’Essere che ha in sé «tutti i fondamenti della propria razionalità e della propria immediatezza, il soggetto che fonda sé stesso nell’ordine della razionalità e dell’immediatezza, causa sui sia per l’essenza sia per l’esistenza, cioè non solo per se concipitur et demonstratur, ma anche per se est: “è per sé e per sé è conosciuto” (cfr. Ibidem, p.54).
In altre parole… Dio.
4 • Tra la scelta di Dio e la scelta della morte per pazzia «tertium non datur»
Qualcuno avrà storto il naso nel leggere la conclusione del precedente paragrafo.
Dio?
Ma come sarebbe a dire?
Stavamo facendo un discorso serio…
Stavamo parlando di un modo per dissipare i dubbî di fronte alle domande esistenziali…
Stavamo parlando di «risposte evidenti»…
…che c’entra Dio?
Dio è l’apoteosi dell’irrazionalità.
Cosa rispondi, Sale?
Rispondo che… forse sì.
Forse «Dio» è una risposta irrazionale.
Però non nel senso che date voi a questa parola.
In che senso allora?
Dunque.
Avete presente i numeri irrazionali?
Come probabilmente ricorderete dal liceo, un numero irrazionale è un numero reale che non può essere espresso come frazione di due numeri interi, cioè non può essere scritto nella forma a/b, dove «a» e «b» sono numeri interi e «b» è diverso da 0.
1/2 è una frazione: indica la metà di un intero.
3/4 è una frazione: indica che dell’intero prendo 3 parti su 4.
π (pi greco) invece è un numero irrazionale, ed esprime il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio.
Il suo valore è 3,141592653589793… più un infinito numero di cifre dopo la virgola.
Anche la radice quadrata √2 è un numero irrazionale.
Il suo valore è 1,41421356237… più un infinito numero di cifre dopo la virgola.
(Altri numeri razionali sono il numero di Nepero, la sezione aurea e moltissimi altri)
I numeri irrazionali sono reali.
Esistono.
Ma sono «qualcosa che non si adatta al nostro raziocinio» (cfr. PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.68).
Non possiamo contenerli nella nostra capoccia.
Li riusciamo a concepire.
Ne intuiamo il valore.
Ma non riusciamo ad esprimerlo, se non in modo approssimativo.
Ecco.
In questo senso, Dio è irrazionale.
Però è tremendamente reale.
Tremendamente necessario.
Sapete perché uso la parola «necessario»?
Non perché abbiamo bisogno di «risposte preconfezionate» o di un «Dio tappabuchi»…
…ma perché l’alternativa rispetto a trovare un «centro di gravità permanente» nella propria vita è veramente triste.
L’alternativa è – per usare le parole di Florenskij (cfr. Ibidem, p.70) – bruciare nel fuoco inestinguibile della «sospensione del giudizio» (epoché).
Non so cosa ne pensate voi…
…ma io ho conosciuto molte persone in questa condizione.
Persone che vivono come Atlante, il titano della mitologia greca costretto a reggere sulle proprie spalle l’intera volta celeste.
Cioè, fuor di analogia, persone che portano sulle proprie spalle ogni dubbio esistenziale.
Ogni ferita non sanata.
Ogni domanda senza risposta e nonsenso che la vita gli ha riservato.
Ogni frustrazione.
Ogni sogno lasciato a marcire sotto il peso della realtà.

Più le persone portano «tutto questo» sulle spalle, più i dubbî aumentano.
Più i dubbî aumentano, più c’è il serio rischio che aumenti anche il cinismo.
C’è il serio rischio di diventare più disillusi nei confronti della vita.
Sempre più alla deriva, in nome del razionalismo.
In nome del: «Credere in Dio? Io? No grazie, non ho tempo per le favole…».
…
A questo punto, qualcuno potrebbe fare la seguente osservazione:
- «Ma scusa, Sale, mica tutte le persone atee e agnostiche sono così pessimiste e angosciate dall’esistenza!»
- «Non pensi che ci sia una via di mezzo tra credere in Dio e avere pensieri così tristi?»
- «Non pensi che esista una “terza via”?»
In realtà… no, non lo penso.
E non sono il solo a pensarlo.
Anche Florenskij è dello stesso avviso:
Tra il Dio Uno e Trino cristiano e la morte per pazzia tertium non datur.
Attenzione: non esagero; semmai non trovo parole abbastanza forti per esprimermi.
Non c’è nemmeno lo spazio di un capello tra la vita eterna nel seno della Trinità e la seconda morte che è eterna.
(PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.73)
Alla fine del 2021 avevo scritto una pagina del blog dal titolo provocatorio: «E se Dio non esistesse?».
In quell’occasione, dicevo che nella società di oggi – forse per la prima volta nella storia – è svanita ogni traccia di una dimensione trascendente – cioè una dimensione che superi i cinque sensi, la materialità, il «qui ed ora».
Dicevo che senza questo punto di appoggio, ogni aspetto della vita – culturale, sociale, intellettuale, artistico – si è come ripiegato su sé stesso.
Se togliamo un orizzonte metafisico, cosa resta?
Resta che:
- la politica si riduce a una corsa al dominio;
- la filosofia si appiattisce nel «tutto è relativo»;
- il senso dell’arte diventa un vuoto estetismo (come scrivevo nella vignetta qui sopra: avete presente l’immondizia che è l’arte contemporanea?);
- il fondamento del diritto diventa il legalismo;
- l’economia si riduce al gioco del «chi guadagna di più, vince»;
- la scienza finisce per inseguire i capricci del mercato (quelli di una cultura ossessionata dal piacere, dal consumo e dall’apparenza);
- etc.
Se togliamo di mezzo il “sistema di riferimento” che è Dio, con quale metro possiamo dire che uno di questi ambiti…
- …funziona bene/male?
- …sta andando nella direzione giusta/sbagliata?
- …è utile/dannoso alla società?
- …è giusto/ingiusto?
Ogni altro “sistema” che possiamo usare come riferimento è limitato, imperfetto, instabile, soggettivo.
Alla fine, ci ritroviamo a dire che qualcosa è «buono o cattivo» solo in base a ciò che MI piace, MI conviene… o – peggio – in base a quello che pensa la maggioranza in quel dato momento storico.
Ma che criterio è questo?
Si può rispondere alle domande esistenziali che facevo sopra – sull’amore, sulla propria vocazione, sulle scelte importanti della vita – basandosi su questi presupposti?
Senza delle fondamenta solide, basta un soffio di vento e crolla tutto.
Senza una bussola, puoi anche muoverti in lungo e in largo, ma non sai dove stai andando.
Ecco.
Io penso che il rifiuto di Dio da parte dell’uomo “moderno” non lo abbia liberato…
…al contrario, lo ha lasciato più smarrito, più incerto, più dubbioso.
Lo ha lasciato ad inseguire ombre che non riempiono questo vuoto interiore.
Al che, qualcuno potrebbe dire:
«Ok, Sale…
…ammesso e non concesso che il tuo discorso abbia senso…
…sta di fatto che però io non credo in Dio!
Come faccio a stare con i miei dubbi, le mie ansie quotidiane e i miei dilemmi esistenziali?
Che devo fare?
Sforzarmi di credere che Dio esista?»
Non si tratta di far finta di essere cristiani.
La fede non è una farsa.
Non si improvvisa.
Non si può dissimulare.
Non è questione di «far finta che Dio esista».
Facciamo finta che tu sia il più incallito degli atei.
O il più scettico e diffidente degli agnostici.
Se ti rendi conto del fatto che tanti tuoi scetticismi e diffidenze dipendono da bias cognitivi, mi sembra già un ottimo punto di partenza.
Fatto questo passo, poi si procede per gradi.
Il nostro problema principale con Dio non sono tanto le “prove” a favore della sua non-esistenza…
…ma il fatto che teniamo “la guardia alzata” rispetto anche solo alla possibilità che Lui esista.
Dio però non è un concetto da dimostrare.
Non si tratta di andare a cercare un argomentazione filosoficamente cogente (che, secondo me, esisterebbe pure), o una dimostrazione scientifica.
La relazione con Dio invece è una possibililtà che si schiude pian piano.
È un movimento graduale.
Un rischiararsi lento.
Una luce che non acceca… ma che gradualmente rischiara.
A tal proposito, mi viene in mente una frase del teologo (*) ortodosso Christos Yannaras (1935-2024):
(*) (A onor del vero, Yannaras è un teologo discretamente eretico, e nel libro che ho citato qui sotto dice un sacco di castronerie sesquipedali… però questa frase è molto bella)
Nell’ambito dell’esperienza esistenziale, le cose più importanti che accadono (quelle con le ripercussioni più importanti nella vita umana) avvengono soprattutto attraverso la spontaneità della fiducia (la dinamica della relazione) e non con una pianificazione razionale e previsioni certe.
Ad esempio:
– quando noi esseri umani ci innamoriamo, i motivi sono tanto irrazionali quanto più sincero e completo è il nostro innamoramento;
– mettiamo al mondo dei figli, completando fisiologicamente il nostro amore: sarebbe innaturale (contro natura) “usare” il nostro amore per scopi di utilitarismo interessato – ad esempio, perché la famiglia ha bisogno di manodopera o perché “il paese affronta problemi demografici”!
– con la spontaneità della fiducia dell’amore coniugale, la donna accetta la prova psicosomatica (spesso dolorosa e non priva di pericoli) della gravidanza e del parto.
Si potrebbe estendere questa varietà di esempî a molti altri fatti simili nella nostra vita, illuminando l’affermazione sulla priorità della spontaneità-fiducia.
(CHRISTOS YANNARAS, Caduta, giudizio, inferno ovvero il sabotaggio giudiziario dell’ontologia, Lipa, Roma 2022, p.46)
Conclusione
Nel periodo in cui stavo frequentando quella che poi è diventata la mia fidanzata, un giorno le ho chiesto quale fosse il suo romanzo preferito.
Mi ha risposto che è I promessi sposi di Alessandro Manzoni (1785-1873).
Quando le ho chiesto il perché, mi ha risposto – tra i tanti motivi – che è un romanzo che racconta la verità.
E qual è la verità?
La verità è che «la vita si aggiusta» (parole sue).
La verità è che la provvidenza esiste davvero.
La verità è che Dio scrive dritto sulle righe storte.
Anche quando facciamo male i calcoli.
Anche quando non siamo sicuri «con precisione scientifica» delle nostre decisioni.
Anche quando facciamo una scelta ma siamo ancora pieni di dubbî ed esitazioni.
Mi ha colpito molto che a dirmi queste cose sia stata una ragazza che (oltre ad essere molto più santa di me) ha avuto una vita molto più travagliata della mia – che sono un principino pesaculo con la pancia piena.
Qualche giorno fa – tornando sulla questione delle scelte, dei dubbî e delle decisioni importanti da prendere nella vita – ha detto che «nella vita c’è bisogno di un po’ di sana incoscienza».
Mi è sembrata una frase molto saggia e coscienziosa.
Io conosco fin troppe persone (e forse io sono una di queste) che tante volte – di fronte a decisioni importanti – vorrebbero avere le «prove matematiche» o una «dimostrazione scientifica» che la decisione che prenderanno sarà quella giusta…
…e – dato che è impossibile avere questo tipo di certezza nelle scelte della vita – finiscono per non scegliere e rimanere in un limbo che si protrae nel tempo.
Peccato che il tempo non è infinito.
Con questo, ovviamente, non voglio dire che bisogna fare scelte sbrigative e prendere decisioni «a c🍆zzo di cane…
…ma che non bisogna cadere preda del «demone del perfezionismo» (per chi volesse sapere qualcosa di più su questo demone, lo rimando alla pagina del blog che ho scritto all’inizio del 2022)
E niente.
In chiusura di questa pagina, vi vorrei far leggere un ultimo stralcio, tratto da un libro di don Fabio Rosini:
Il dubbioso è spossato dall’ambiguità del reale e non riesce a distinguere fra ciò che è vero bene e ciò che è falso bene.
Se andiamo a vedere, nei Vangeli, Gesù non risolve i dubbi dipanandoli, ponendo le questioni in maniera articolata e critica, come piace tanto fare a noi occidentali, ma fa tutto in un’altra maniera, radicale e semitica, che appare un pochino deludente per la nostra voglia di capire tutto.
Quest’attitudine la troviamo in tutto l’Antico Testamento il quale non dimostra l’esistenza di Dio, lo pone esistente, mette una stele, afferma con certezza una cosa.
Non dimostra l’esistenza del maligno, lo mostra in atto, non parla della debolezza dell’uomo cercando di articolare un discorso, spiegandola, giustificandola, ma semplicemente la pone come reale.
Noi crediamo di risolvere i dubbi, analizzandoli, sembra ovvio, e certamente i dubbi vanno ascoltati, è un segno di maturità, ma la soluzione del dubbio, appunto, non è nel dubbio, questo non lo realizziamo e non lo ricordiamo quasi mai.
(FABIO ROSINI, Solo l’amore crea : le opere di misericordia spirituale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016, versione Kindle, 27%)
Un dilemma esistenziale non si legge dal basso della confusione ma dall’alto della certezza dell’amore di Dio.
(FABIO ROSINI, Solo l’amore crea : le opere di misericordia spirituale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016, versione Kindle, 29%)
sale
(Primavera 2025)
- PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010
- LUCIANO DE CRESCENZO, Il dubbio, Oscar Mondadori, Milano 2011
- BLAISE PASCAL, Pensieri, BUR Rizzoli, Milano 2013
- ENRICO BERTI, Invito alla filosofia, La Scuola, Brescia 2011
- FABIO ROSINI, Solo l'amore crea : le opere di misericordia spirituale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016