Il Dio soprammobile (ovvero: che significa «Non nominare il nome di Dio invano»?)

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1 • Il mio problema con alcuni canti in chiesa

Dato che ormai ci ho preso gusto ad aprire le paginette del blog con le poesie degli scapigliati, oggi è il turno di «Musica di chiesa» di Emilio Praga (1839-1875):

Amo la voce chioccia e poverina
Dell’errante bambina;
Amo il canto del cieco, e il ritornello
Del vecchierello;
Amo tutta la musica che ho intesa,
Ma non amo la musica di chiesa.

Ah per l’uomo sventurato appeso ai chiodi,
Quel rimbombo di lodi
Al barbaro che in ciel tranquillamente
Dalla sua gente
Si faceva adorar mentr’ei morìa,
L’onta rinnova e il mal dell’agonìa!

Amo la voce chioccia e poverina
Dell’errante bambina;
Amo il canto del cieco, e il ritornello
Del vecchierello;
Amo tutta la musica che ho intesa,
Ma non amo la musica di chiesa.

(EMILIO PRAGA, «Musica di chiesa», tratta dalla raccolta «Penombre» del 1864)

Ora.

Premesso che secondo me Emilio Praga ha leggermente frainteso (per usare un eufemismo) il senso della liturgia cristiana…

E premesso che anche se la gente canta male, sono abbastanza sicuro che non si rinnovi il «mal dell’agonia» per Gesù che muore in croce…

vecchiette in chiesa

…fatte queste precisazioni, ci sono alcuni canti di chiesa che non sopporto.

Ad esempio.

Non so se avete presente il Symbolum 77 – reso celebre dopo la performance di Corrado Guzzanti nella seconda stagione di «Boris».

Il canto si apre con questa strofa:

Tu sei la mia viiita,
altro io non hooo
Tu sei la mia straaada,
la mia veritaaà!

(dal canto «Symbolum 77» di Pierangelo Sequeri, del 1977)

Se mi faccio un esame di coscienza (neanche troppo approfondito) mi rendo facilmente conto che Dio non è la mia vita.

Vorrei che lo fosse.

E vorrei non avere «altro che Lui».

Ma in realtà, se dovessi cantare correttamente, dovrei dire qualcosa del genere (perdonate se nella mia versione si perde un po’ la metrica):

Non sei la mia viiita,
troppe cose hooo [con le quali spesso cerco di sostituirti],
Tu sei il mio misteeero,
la mia incognitaaa!

Facciamo un secondo esempio.

Avete presente l’inizio del canto «Se m’accogli»?

Tra le mani non ho niente: spero che mi accoglierai.
Chiedo solo di restare accanto a te.
Sono ricco solamente dell’amore che mi dai:
è per quelli che non l’hanno avuto mai.

(dal canto «Se m’accogli» di Pierangelo Sequeri, del 1976)

Quando l’assemblea lo canta, a volte “mi diverto” a pensare la versione onesta che dovrei intonare io (anche in questo caso, purtroppo, si perde un po’ il ritmo):

Tra le mani ho un sacco di stronzate,
che mi distraggono dall’avere un rapporto autentico con Te.
Sono “ricco” di mille distrazioni e scempiaggini
che spesso mi rendono impermeabile al tuo amore.

Ultimo esempio.

Sta volta prendiamo un canto petaloso… di quelli che ti fanno venire voglia di sotterrarti da solo: sto parlando del canto «Ti ringrazio mio Signore».

Per chi non lo ricorda, inizia così:

Ti ringrazio, mio Signore, non ho più paura!
perché, con la mia mano nella mano degli amici mieeeeei
cammino fra la gente della mia città
e non mi sento più solo!

(dal canto «Ti ringrazio mio Signore» di Pierangelo Sequeri, del 1974)

In questo caso, la mia versione suonerebbe più o meno così:

Caro Signore, io ho un sacco di paura!
Sia quando sto da solo, che quando sto con i miei amici (con i quali me la batto al foto-finish per capire chi è più imparanoiato)!
Cammino sui marciapiedi o nei vagoni della metro affollati di gente, e a volte mi sento maledettamente solo!

Non so.

Ora forse dirò una cosa cattiva…

…ma le opzioni sono due:

  • o io sono l’unico scemo che quando sente questi canti rimane in silenzio (perché ho la sensazione che se cantassi queste strofe, direi delle bugie);
  • oppure c’è un po’ troppa gente che intona a cuore leggero questi canti, e invece dovrebbe farmi compagnia in silenzio.

2 • Che significa «non nominare il nome di Dio invano»?

I Dieci comandamenti si trovano in due punti della Bibbia: in Esodo 20,2-17 e in Deuteronomio 5,6-21.

In entrambe le versioni, il secondo comandamento recita:

Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.
(Es 20,7; Dt 5,11)

Nella cultura pop, il significato del secondo comandamento oscilla tra:

  • non nominare il nome di Dio a sproposito
  • non bestemmiare

Ora.

Vi confesso che per buona parte della mia vita, pensavo che questo fosse il senso del comandamento…

…poi ho provato a mettere in moto il cervello.

Pensiamoci un secondo.

Anzi.

Proviamo a metterci nei panni di Dio (se c’è qualche non credente che sta leggendo, può fare anche lui questo gioco).

Cosa raccontano i primi libri della Bibbia?

Dio si è rivelato ad Abramo. Ha stretto un alleanza con lui e si è dimostrato di parola. Anche Isacco, Giacobbe, Giuseppe hanno fatto la stessa esperienza: Dio è buono. Dio è fedele. Dio è l’aiuto insperato quando la situazione è disperata.

Dio è come Gandalf quando arriva al fosso di Helm con i rinforzi per sconfiggere gli Uruk-hai di Saruman.

Bene.

A un certo punto della storia, Dio decide di dare una legge al popolo.

Quando consegna la legge ad Israele, dice: «Mi raccomando! Questi comandamenti non sono un mio capriccio, ma sono per il vostro bene! Se li osserverete, fidatevi che sarete più felici (sto parafrasando quello che c’è scritto in Dt 6,20-25).

E il popolo: «Ah, fichissimo! Grazie! E quanti sono questi comandamenti?».

(Dio) «Dieci!»

(il popolo) «Ah, ammazza, solo dieci! Dato che sono così pochi, di sicuro ognuno di questi sarà di vitale importanza…»

(Dio) «Infatti, è così…»

(il popolo) «Avendo così poco spazio a disposizione, di sicuro non avrai detto nulla di superfluo…»

(Dio) «Esattamente…»

non bestemmiare

Se dovessimo fare un paragone nuziale, sarebbe come se un uomo e una donna in procinto di sposarsi, avessero necessità di mettere nero su bianco una regola con la quale stabiliscono di non offendersi reciprocamente.

Ma è davvero necessario che ci sia una regola simile, tra due persone che si vogliono bene?

Oh, intendiamoci.

Ovviamente nel secondo comandamento rientra (anche) il fatto di non usare a sproposito il nome di Dio, non bestemmiarlo, etc… ma questo non è il senso più profondo e autentico di queste parole.

Proviamo a capire un po’ meglio cosa significano.

Dunque.

Partiamo dal concetto di «nome».

Nella cultura ebraica, il nome indica la verità intima di qualcuno/qualcosa (*)…

…e infatti spesso accade che a qualcuno venga cambiato il nome, per indicare il suo nuovo ruolo/compito/missione… ad esempio:

  • Dio cambia il nome ad Abramo (cfr. Gen 17,5);
  • Gesù cambia il nome a Simone (cfr. Gv 1,42).

(*) (Il tema del «vero nome» in realtà precede l’ebraismo; per chi volesse approfondire, lo rimando a questa pagina; tra l’altro, questo concetto è stato sviluppato recentemente anche nella letteratura fantasy – l’idea del «vero nome» di qualcuno/qualcosa è presente in alcuni romanzi di Neil Gaiman, nel Ciclo di Earthsea di Ursula Le Guin, nel ciclo dell’Eredità di Christopher Paolini, etc.)

Come sicuramente saprete, nell’ebraismo il nome di YHWH era impronunciabile.

Il suo nome veniva pronunciato solo una volta all’anno, nel giorno dello Yom Kippur, dal sommo sacerdote, all’interno del Sancta sanctorum del Tempio.

Tuttavia, il fatto che YHWH abbia rivelato il suo nome al popolo ebraico è un segno della sua prossimità: significa che Dio si è reso “disponibile” ad essere interpellato, che ha «esposto il fianco» agli uomini.

Cosa significa dunque il comandamento «non pronuncerai il nome di Dio invano»?

Partiamo da ciò che ha detto papa Francesco in un’udienza generale di qualche anno fa:

La versione «Non pronuncerai» traduce un’espressione che significa letteralmente, in ebraico come in greco (*), «non prenderai su di te, non ti farai carico».
L’espressione «invano» è più chiara e vuol dire: «a vuoto, vanamente».
Fa riferimento a un involucro vuoto, a una forma priva di contenuto.
È la caratteristica dell’ipocrisia, del formalismo e della menzogna, dell’usare le parole o usare il nome di Dio, ma vuoto, senza verità.

(PAPA FRANCESCO, udienza generale di mercoledì 22 agosto 2018)

(*) (il testo greco della Settanta recita: «Οὐ λήμψῃ τὸ ὄνομα Κυρίου τοῦ θεοῦ σου ἐπὶ ματαίῳ· οὐ γὰρ μὴ καθαρίσῃ Κύριος ὁ θεός σου τὸν λαμβάνοντα τὸ ὄνομα αὐτοῦ ἐπὶ ματαίῳ»; la Vulgata invece dice: «Non adsumes nomen Domini Dei tui in vanum, nec enim habebit insontem Dominus eum, qui adsumpserit nomen Domini Dei sui frustra»; la parola «adsūmo» significa «prendere su di sé, assumere, arrogarsi, impadronirsi»)

«Farsi carico del nome di Dio» significa stare in una relazione autentica con Lui.

Significa «assumere su di noi la sua realtà» (PAPA FRANCESCO, Ibidem).

Significa che ogni volta che mi faccio il segno della croce, esprimo con un gesto il desiderio di mettere la mia testa, il mio cuore, le mie azioni realmente in comunione con Dio.

Dunque, alla luce di tutto quello che abbiamo detto fin qui…

…che significa il secondo comandamento?

Come scriveva il vescovo e martire Cipriano (210-258):

Portare il nome di Cristo e non camminare sulle orme di Cristo non è forse un tradire il nome di Dio e abbandonare la via della salvezza?

(CIPRIANO, La gelosia e l’invidia, 12; CSEL 3,427)

Anche papa Francesco poneva una domanda simile:

Ci si può domandare: è possibile prendere su di sé il nome di Dio in maniera ipocrita, come una formalità, a vuoto?
La risposta è purtroppo positiva: sì, è possibile.
Si può vivere una relazione falsa con Dio.
Gesù lo diceva di quei dottori della legge; loro facevano delle cose, ma non facevano quello che Dio voleva.
Parlavano di Dio, ma non facevano la volontà di Dio.
E il consiglio che dà Gesù è: “Fate quello che dicono, ma non quello che fanno”.
Si può vivere una relazione falsa con Dio, come quella gente.
E questa Parola del Decalogo è proprio l’invito a un rapporto con Dio che non sia falso, senza ipocrisie, a una relazione in cui ci affidiamo a Lui con tutto quello che siamo.
In fondo, fino al giorno in cui non rischiamo l’esistenza con il Signore, toccando con mano che in Lui si trova la vita, facciamo solo teorie.

(PAPA FRANCESCO, udienza generale di mercoledì 22 agosto 2018)

Il filosofo austriaco Martin Buber (1878-1965) diceva che il cuore dell’uomo è un continuo fabbricatore di «idoli».

Cos’è un idolo?

No, non è la statuetta di legno della pachamama.

pachamama paganesimo

L’idolo è quella cosa sulla quale (a volte senza che neanche me ne rendo conto) fondo la mia esistenza.

Quella cosa nella quale il mio cuore pone la sua intima sicurezza.

Che significa allora il secondo comandamento?

Quand’è che «mi faccio carico del nome di Dio come una menzogna»?

Gli esempî si sprecano:

  • posso dire a parole che Dio è «la mia roccia, la mia fortezza, il mio liberatore» (cfr. Sal 18,3)… ma nella parte più segreta del mio cuore, in realtà, ciò che mi rende sereno non è il mio rapporto con Dio, ma il mio contratto a tempo indeterminato;
  • posso far credere agli altri che «anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché il Signore è con me» (cfr. Sal 23,4)… ma in realtà l’unica cosa che riesce ad alleviare la mia angoscia per il futuro sono le continue distrazioni nelle quali cerco di perdermi continuamente;
  • posso cantare a squarciagola «Tu sei la mia viiita, altro io non hooo»… senza neanche accorgermi che Dio non è la mia vita, ma «un soprammobile» tra i tanti, non diverso da una action figure o dal Nintendo che prende polvere sotto al mio televisore.

3 • La tiepidezza

Insomma.

Dopo aver letto il paragrafo precedente sul secondo comandamento, forse si capisce un po’ meglio quello che dicevo sui canti di chiesa, all’inizio di questa paginetta.

Il problema – ovviamente – non sono i canti in sé.

Però quando ascolto canti come…

Ho incontrato teee, Gesù,
e ogni cosa in me è cambiata,
tuuutta la mia viiita
ora ti aaappartieeene!

(dal canto «Re di gloria», di Alessandra de Luca, del 2020)

…penso:

  • in questo momento, non mi sembra affatto che la mia vita «appartenga a Gesù»;
  • sì, è vero… vorrei avere gli occhi abbastanza limpidi da vedere in lui un Padre, e non una «ipotesi esplicativa della realtà»;
  • vorrei sperimentare in prima persona che Dio cambia la vita a chi lo incontra;
  • sento un desiderio di radicalità;
  • vorrei essere “folgorato sulla via di Damasco” come Paolo di Tarso;
  • vorrei che Dio si facesse vivo e mi purificasse il cuore da tutta la merda che c’è dentro…

…però ecco…

…oggi che sto scrivendo questa paginetta (sono i primi giorni di aprile del 2023) mi sentirei di mentire se cantassi a squarciagola a Dio: «tuuutta la mia viiita, ora ti aaappartieeene!».

~

Un paio di anni fa, leggevo un libro di teologia morale.

(Libro un po’ palloso, va detto. Ma ogni tanto mi prende la scimmia di farmi un bel clistere di noia una lettura un po’ più sistematica)

Nel libro, ho trovato un paragrafo super-interessante in cui si parla della tiepidezza.

Cos’è la tiepidezza?

O meglio… chi è una persona tiepida?

Ecco cosa dice il libro:

Il tiepido si lascia trascinare dalla tentazione di pensare che la via verso la felicità umana sia una via di mezzo tra la santità cristiana – vista come troppo onerosa – e l’allontanamento da Dio – visto come una buia strada senza uscita.
Il tiepido vuole essere “buono”, ma trascura il suo rapporto filiale con il Signore, si muove entro orizzonti esclusivamente terreni (soldi, potere, benessere materiale, ecc.), non dà ascolto alle ispirazioni della grazia, è superficiale e talvolta irresponsabile nello svolgimento dei compiti familiari, professionali e sociali, non dimostra preoccupazione alcuna per la propria crescita spirituale e fa fatica a impegnarsi in qualsiasi cosa che vada più in là di quanto si vede e si tocca.

(ENRIQUE COLOM – ANGEL RODRÍGUEZ LUÑO, Scelti in Cristo per essere santi – Morale fondamentale, EDUSC, Roma 2016, p.94)

Che dire?

Dopo aver letto queste righe, credo di essere diventato l’incarnazione vivente di questo meme:

meme gerry scotti

Mi è tornato in mente lo scambio di battute tra Bart Simpson e Fratello Fede (stagione 11, episodio 11):

Cioè.

Siamo onesti.

In quanti la pensiamo come Bart?

Magari ci vergognamo a dire questa cosa ad alta voce.

Ma sotto sotto, nella parte più segreta del nostro cuore, pensiamo che stare troppo vicini a Dio sia una fregatura

Pensiamo che la strada per la “salvezza” e quella per la felicità vadano in due direzioni opposte…

Pensiamo che «essere buoni» ed «avere una bella vita» siano due cose inconciliabili…

…e quindi da un lato ci sforziamo di fare i bravi (non sia mai che Dio scopra che siamo «cattivi» e ci mandi all’inferno!), ma dall’altro lato, pensiamo che essere «troppo buoni» non sia conveniente – anzi, pensiamo che sbattersi troppo per gli altri o per Dio sia una cosa piuttosto fastidiosa.

Per dirla con le parole del libro di teologia morale:

La persona tiepida non vuole offendere gravemente il Signore, ma neanche si impegna seriamente per realizzare l’unione con Cristo attraverso la sua vita.
Il tiepido forse non dice chiaramente di “no” alla chiamata divina, ma rimanda sistematicamente la risposta a un “dopo” o a un “domani” che non arrivano mai.
Il suo fiacco amore di Dio rende troppo pesante per lui qualsiasi impegno.
Ciò spiega le forti parole che usa la Scrittura nei suoi confronti: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca!» (Ap 3,15-16).

(ENRIQUE COLOM – ANGEL RODRÍGUEZ LUÑO, Scelti in Cristo per essere santi – Morale fondamentale, EDUSC, Roma 2016, p.94)

tiepidezza

Da dove ha origine la tiepidezza?

(Scusate se torno sempre sullo stesso argomento, ma) deriva dal peccato originale, ovvero dal fatto che noi immaginiamo Dio come lo descrive il Serpente ad Adamo ed Eva:

  • qualcuno da cui stare in guardia;
  • un padrone severo;
  • un poliziotto cattivo.

Prima scrivevo che vorrei fare esperienza della paternità di Dio… ovvero vorrei rendermi (realmente) conto del fatto che Dio «fa il tifo per la mia felicità» più di quanto lo faccia io stesso.

Questa cosa qui si chiama «santità».

Non a caso, la Chiesa parla di una «vocazione universale alla santità»… cioè, tutti sono chiamati alla santità, non Francesco di Assisi, madre Teresa di Calcutta o qualche altro “santo V.I.P.”.

Finché Dio non mi fa sperimentare che «santità» è sinonimo di «felicità», non potrò mai essere né santo né felice, perché:

  • o mi sforzerò di fare il bravo “in apnea” (come fanno tante suore acide, o preti frustrati, che «non hanno il tempo di pregare» e non ricordano più cos’è l’adorazione eucaristica);
  • oppure vivrò una vita piccolo borghese… magari andando anche tutte le domeniche in chiesa, ma continuando a cantare ad alta voce canti che dicono qualcosa di diverso rispetto a ciò che c’è nel mio cuore.

Insomma.

Il secondo comandamento di cui parlavo nel paragrafo precedente, non è (tanto) un invito a «non bestemmiare», ma a «non essere tiepido»:

  • o ho una relazione radicale con Dio (quindi gustosa, appagante, felice… esteticamente bella);
  • oppure non ho una relazione con Dio

4 • Perdere «Gesù» e trovare «Cristo»

Un paio di anni fa, ho letto un libro bello tosto.

Uno di quelli il cui autore ha preso alla lettera le parole di Gesù: «Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno» (Mt 5,37).

(In realtà – pistola alla tempia – alcuni passaggi di questo libro li ho trovati un po’ troppo duri per la mia sensibilità… sarà che negli ultimi anni sono diventato un piagnone di prima categoria…)

A un certo punto del libro, si parla del famoso brano del Vangelo di Luca in cui Maria e Giuseppe – andando in pellegrinaggio a Gerusalemme – perdono di vista Gesù dodicenne, e lo ritrovano tre giorni dopo…

Non oso immaginare la loro paura, quando hanno realizzato di averlo perso.

anima lascia corpo tom gerry

Prendendo come spunto l’episodio dello smarrimento di Gesù, nel libro ho trovato queste righe:

Sono convinto che perdere Gesù possa essere una delle più grandi grazie della vita cristiana e intendo dire che è bene non ritrovarsi più tra le mani quel Dio perennemente bambino, amabile sì, ma che non vogliamo seguire, quel Gesù che sta dove lo metti come un soprammobile: «Credi?».
«E sì cosa vuoi, a qualcosa bisogna pur credere!».
«Ma sì, pure io credo in Gesù. Lui, tanto, voleva bene a tutti».
Gesù diventa allora come il figlio piccolo dei vicini di casa: quando lo incontri per le scale lo saluti, magari lo coccoli anche… ma poi è bene che i genitori se lo portino via, tenendolo con la manina per non farci stare troppo in imbarazzo.
[…]
Molti cristiani amano un Gesù infantile, e la loro fede resta infantile come colui che amano.
Lo rispettano perché fa tenerezza, non perché li salva dal non senso e dal male (e a volte anche da loro stessi).
La cosa più positiva che si può augurare a costoro, e che dobbiamo augurarci anche noi, è quella di perdere questo Gesù narcotizzato che in fin dei conti non esiste.

(GIUSEPPE FORLAI, Incontrare l’Inatteso : vita cristiana per gente perplessa, Paoline, Roma 2010, p.42)

Queste righe forse fanno un po’ sorridere, ma in realtà sono terribili.

Come dicevo nella paginetta del blog in cui parlavo delle bestemmie, uno dei momenti più dolorosi della mia vita è stato quando «mi si è rotto il Dio soprammobile che mi ero fabbricato con le mie mani» (*).

(*) (Nota di Capitan Ovvio: no, non sto parlando di una statuetta di Gesù! È una metafora! Mi riferisco a quando ho scoperto che mi ero fatto un’idea tutta mia di Dio, ma in realtà lo conoscevo solo “per sentito dire” (cfr. Gb 42,5))

bestemmiometro san pietro

Ero arrabbiato con Dio.

Ero arrabbiato per il suo silenzio.

O forse ero arrabbiato per la sua non-esistenza.

E l’unico modo “originale” con cui riuscivo a prendermela con Lui era bestemmiare (sperando che esistesse) e rinnegarlo.

Anche se in realtà non era il Dio di Gesù che stavo rinnegando, ma un Dio-distributore-delle-merendine che esisteva solo nella mia testa.

Insomma, come ha scritto don Giuseppe nel suo libro:

Rinnegare un credo che ha per oggetto questo Gesù, vuol dire fare lutto per un Dio che non c’è, disponendosi a un viaggio interiore che si lasci alle spalle una fede rimasta alla prima comunione e che quindi è diventata piccola come l’abitino bianco di quel giorno di festa: lo si guarda con simpatia, ma non lo si indossa più!
Grazie a Dio, diciamo noi, poiché esso non rende più ragione della complessita delle situazioni che la storia personale ci riserva.

(GIUSEPPE FORLAI, Incontrare l’Inatteso : vita cristiana per gente perplessa, Paoline, Roma 2010, p.44-45)

Dio (se esiste) è più grande dei miei schemi.

Dio (se esiste) è più grande della mia capoccia.

Dio (se esiste) è più grande dei miei tentativi di addomesticarlo.

Gesù (se è risorto) è assai diverso dal “soprammobile” con cui lo avevo sostituito.

È stato molto doloroso scoprirlo…

…però, tutto sommato (anche se a volte sento ancora la nostalgia del “Dio soprammobile”) penso che sia stato un bene entrare in questo periodo di “lutto religioso”, che ancora sto sperimentando.

A volte ho la tentazione di pensare che Dio (se esiste) si sia preso gioco di me.

Che mi abbia ferito dove fa più male (cioè in alcuni desiderî che mi stavano a cuore, e che sono stati frustrati).

Però boh.

Se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, questa silenzio di Dio mi ha permesso di rimuginare su tante cose.

Ad esempio, sul secondo comandamento.

Cioè sul rischio di farmi carico del nome di Dio in maniera ipocrita, come una formalità, come una menzogna.

O per dirla nuovamente con le parole di don Giuseppe:

In fondo, anche se credenti, molti di noi coltivano la convinzione che la vita cristiana richieda la mutilazione di ciò che rende veramente uomini felici e che il cristiano sia un uomo a metà, tagliato in due da mille proibizioni che dicono cosa si può fare e cosa no.
Si è cristiani, si esce dalla messa domenicale con il sorriso sulle labbra, ma l’occhio guarda con nostalgia inconfessata l’esistenza di chi, non legato a vincoli religiosi, può permettersi di dormire fino alle dodici del mattino.
Si è cristiani, si cerca di essere fedeli quotidianamente alla preghiera personale, al rosario, alla recita dei salmi, ma il cuore sembra quasi suggerirci che la nostra vita non sia migliore di chi non prega.
Si rimane fedeli al proprio celibato ecclesiastico, alla moglie o al marito, tra mille tentazioni, ma intanto la testa ci dice che tutto sommato non serve privarsi della gioia del sesso o dell’incontro intrigante e momentaneo con una persona affascinante.
Se poi a questi ragionamenti aggiungiamo che Dio è buono e perdona tutti, allora gli argini non tengono più, e l’onda piena della repressione inizia a sommergere tutto.
Questi sono i pensieri che nascono dal profondo e che indicano, se persistenti, che stiamo mettendo la nostra ricerca di felicità contro il Signore, quasi che lui sia assetato delle nostre frustrazioni e scontentezze (certo in cambio della salvezza eterna!).

(GIUSEPPE FORLAI, Incontrare l’Inatteso : vita cristiana per gente perplessa, Paoline, Roma 2010, p.101-102)

Conclusione

Il “Dio soprammobile” è tranquillo.

Se ne sta lì zitto e buono.

Al massimo, disturba un po’ la domenica mattina, a messa.

Però durante la settimana non scoccia.

Durante la settimana, è sufficiente farsi un segno della croce – un po’ distrattamente – prima di andare a dormire, e va tutto bene…

…incontrare realmente Dio è tutt’altra faccenda.

E i migliori testimoni di questo incontro sono i santi:

Perché i santi sono così capaci di toccare i cuori?
Perché i santi non solo parlano, muovono!
Ci si muove il cuore quando una persona santa ci parla, ci dice le cose.
E sono capaci, perché nei santi vediamo quello che il nostro cuore profondamente desidera: autenticità, relazioni vere, radicalità.

(PAPA FRANCESCO, udienza generale di mercoledì 22 agosto 2018)

Qualcuno forse dirà che la santità è un obiettivo «un po’ troppo alto».

Forse è vero…

…ma non penso che questa sia una brutta notizia:

È difficile raggiungere un ideale nobile; di conseguenza, è quasi impossibile convincerci di averlo raggiunto.
Ma è facile raggiungere un ideale modesto; di conseguenza, è più facile convincerci di averlo raggiunto quando in realtà non è affatto così.
Facciamo un esempio a caso: possiamo considerare una nobile ambizione sognare di essere un arcangelo; colui che inseguisse un simile ideale sarebbe molto probabilmente un asceta, o addirittura un esaltato, ma – credo – non un illuso.
Non penserebbe di essere un arcangelo, andandosene in giro a sbattere le mani nella convinzione che siano ali.
Ma supponiamo che un uomo sano di mente abbia un ideale modesto; supponiamo che desideri essere un gentiluomo.
Chiunque conosca il mondo sa che in nove settimane si sarà convinto di essere diventato un gentiluomo; ma poiché non sarà affatto così, ne deriveranno grandi sconvolgimenti pratici e catastrofici nella vita sociale.
Non sono gli ideali più folli a distruggere il mondo pratico, ma quelli più banali.

(GILBERT KEITH CHESTERTON, Eretici, Lindau, Torino, 2010, p. 202-203)

sale

(Primavera 2023)

Fonti/approfondimenti
  • PAPA FRANCESCO, udienza generale di mercoledì 22 agosto 2018 (parte del ciclo di catechesi sui dieci comandamenti)
  • ENRIQUE COLOM, ANGEL RODRÍGUEZ LUÑO, Scelti in Cristo per essere santi - Morale fondamentale, EDUSC, Roma 2016
  • GIUSEPPE FORLAI, Incontrare l'Inatteso : vita cristiana per gente perplessa, Paoline, Roma 2010

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