La sofferenza: sopportare, accettare, offrire il dolore a Dio?

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1 • Premessa per mettere le mani avanti

Ogni volta che pubblico una paginetta sul blog, ho sempre il timore che qualcuno possa travisare completamente il motivo per il quale io scrivo.

Non so… scrivo la paginetta sull’umiltà?

Ho il timore che qualcuno pensi che io – «l’umile» – spieghi al mondo cos’è l’umiltà.

Scrivo la paginetta sulla speranza?

Ho il timore che qualcuno penso che io – «lo speranzoso» – spieghi al mondo come si spera.

sale che spiega

Ecco.

Per favore.

Vi prego.

Questo NON è il senso delle pagine del blog.

Non c’è niente di più falso.

Anzi:

  • se scrivo una pagina sull’umiltà è proprio perché vorrei essere più umile… e mettere nero su bianco alcuni spunti di Isacco di Ninive, Giovanni della Croce (o chi per loro) mi aiuta a rimuginare sull’umiltà che vorrei avere;
  • se scrivo una pagina sulla speranza è proprio perché tante volte mi ritrovo senza speranze… e mi fa bene soffermarmi sul modo in cui Joseph Ratzinger, don Fabio Rosini o Wanda Półtawska mi invitano a sperare nell’Unica cosa che conta;
  • se scrivo una pagina sull’amore è proprio perché a volte mi rendo conto di confondere l’amore con il possesso… mentre invece vorrei imparare ad amare veramente, liberamente, a palmi aperti.

Insomma.

Anche sul tema di oggi – dolore, sofferenze, croci, etc. – mettetevi l’anima in pace.

Io sono una pippa nefanda.

2 • Tre atteggiamenti nei confronti della sofferenza

Più passa il tempo, più penso che la sofferenza sia uno dei temi più delicati e complessi di cui parlare…

Un tema su cui – purtroppo – spesso si parla a sproposito…

Un tema per il quale – tante volte – la cosa migliore sarebbe rimanere in silenzio

Non so se avete presente il libro di Giobbe (*)?

(*) (che è il mio libro preferito dell’Antico Testamento)

Spesso si parla del modo in cui i tre amici di Giobbe – Elifaz, Bildad e Sofar – lo rimproverano per buona parte del libro, con frasi tipo:

  • «Ma sei sicuro che la sofferenza che stai vivendo non dipenda dai tuoi peccati?»
  • «Non è che niente niente, se soffri è colpa tua?»
  • «Non è che te la sei andata a cercare?»
giobbe ed elifaz

Tante volte però si omette un particolare: appena i tre amici di Giobbe arrivano da lui, dopo aver visto come è ridotto, rimangono in silenzio per sette giorni e sette notti insieme a lui, prima di rivolgergli la parola:

Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore.

(Giobbe 2,11-13)

Perché ho voluto fare questa precisazione sul silenzio?

Il motivo è presto detto: perché sto violando questo silenzio per parlare del dolore.

Se c’è qualcuno che sta soffrendo – per un qualsiasi motivo (fisico, psicologico, spirituale) – e si trova a leggere questa pagina, spero che mi perdoni se ciò che sto scrivendo non gli dice nulla.

E spero ancor più che mi perdoni, se leggendo queste righe rimarrà infastidito di fronte a qualche mia osservazione.

Non è mia intenzione.

Fatta questa premessa, vorrei suddividere questa paginetta in tre parti, che corrispondono a quelli che secondo me sono i tre atteggiamenti possibili di fronte alla sofferenza (*).

(*) (So bene che è una suddivisione fin troppo tranchant. Ognuno affronta il dolore a modo suo; e ci sono milioni di scale di grigi, sfumature, gradazioni, chiaroscuri e contraddizioni. Concedetemi di fare questa semplificazione… e se poi al termine della paginetta non siete d’accordo, mi potete scrivere su Instagram)

2.1 • Il primo atteggiamento nei confronti della sofferenza

Il primo atteggiamento nei confronti della sofferenza è una reazione scandalizzata.

E non potrebbe che essere così: il dolore infatti è uno scandalo, cioè (dal greco skàndalon, σκάνδαλον) uno “ostacolo”, un “inciampo”:

  • ci mette i bastoni tra le ruote
  • ci fa toccare la nostra fragilità
  • ci allontana dal nostro ideale di «felicità»
  • ci fa porre domande inquiete sulla realtà

Da che mondo è mondo – di fronte alla sofferenza gli uomini spesso si sono chiesti come si possa conciliare l’esistenza di un Dio buono con la presenza del male nel mondo:

  • Come posso pensare che Dio sia buono, se nel mondo ci sono guerre, terremoti, malattie, etc.?
  • Se Dio esiste, perché non mi libera dal dolore?
  • Se Dio è buono, perché soffro?

Nella parte più profonda del nostro cuore, sentiamo che la sofferenza è insensata… che è un assurdo… che non ce la meritiamo

…eppure la sofferenza è inevitabile.

Ad alcuni la vita ne riserva di più… ad altri di meno… ma tutti noi prima o poi ci confrontiamo con un fallimento…

Con una perdita…

Con un rimpianto…

Con una malattia…

funerale di sale

All’inizio del 2023 avevo scritto una paginetta in cui parlavo del dolore… e in particolare dell’algofobia, ovvero del timore eccessivo nei confronti della sofferenza.

Neanche a dirlo, questo timore si è sviluppato soprattutto in Occidente.

Molti di noi infatti (*) sono cresciuti circondati da così tanti comfort, che a volte sembra quasi che ci manchino “gli anticorpi” per confrontarci con un dolore vero.

(*) (io per primo)

Molti di noi, fin da piccoli – crescendo in un contesto piccolo-borghese – si sono assuefatti al benessere.

Ci siamo abituati al fatto che tutto è sempre stato a portata di mano.

Al fatto che «se ti impegni, riuscirai a schivare tutti i pali in faccia».

Al fatto che «Life is now».

Che «Sei già dentro l’happy hour, vivere vivere costa la metà».

A molti di noi è mancata una vera e propria «pedagogia della sofferenza».

E qual è il risultato?

Il risultato è che molti di noi – spesso inavvertitamente – passano la vita a “volare basso” per paura di incontrare una sofferenza

…e non mi riferisco solo alle scelte importanti della vita; questa mentalità spesso ce l’abbiamo nelle vicende più semplici:

  • «Vorrei iscrivermi in palestra, ma andarci tre volte a settimana è un po’ troppo stancante…»
  • «Vorrei dire la mia, ma ho paura di essere escluso dal gruppo…»
  • «Vorrei prenotarmi per il prossimo appello, ma ho paura di essere bocciato…»
  • «Vorrei iscrivermi a lettere, ma i miei genitori vogliono che io faccia medicina…»
  • «Vorrei invitare quella ragazza a prendere un caffè, ma ho paura di essere rifiutato…»
  • etc.

Non so voi, ma se mi avessero dato un euro per tutte le volte che nella mia vita ho agito mosso dalla paura di soffrire, a quest’ora mi sarei potuto comprare… non so… uno scantinato a Colle Salario?

In realtà però, come faceva notare don Fabio Rosini, esiste una soluzione per sfuggire alla sofferenza.

Un luogo dove mettersi al riparo dallo sguardo degli altri, dalla paura di fallire un esame e dalla possibilità di essere friendzonato dalla ragazza che ti piace:

Ci sarà mai un luogo tranquillo, dove niente ci molesti, dove non ci siano interruzioni e deragliamenti?
Sì. C’è.
Due metri per uno.
La bara.
Vicini silenziosissimi, non c’è più alcun dolore e tutto è molto stabile.
Alla fin fine l’ideale moderno del benessere è più o meno la morte.
La vita, invece, ha un altro assetto.

(FABIO ROSINI, L’arte di guarire: l’emorroissa e il sentiero della vita sana, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2020, versione Kindle, 5%)

2.2 • Il secondo atteggiamento nei confronti della sofferenza

Il secondo atteggiamento nei confronti del dolore è espresso molto bene dal detto romano: «a chi tocca nun se ‘ngrugna».

Ovvero: «a chi capita [il dolore], non se la prenda».

In questo secondo gruppo, inserisco una grande varietà di persone:

  • i cristiani che digrignano i denti di fronte al dolore, ma lo accettano perché viene da Dio;
  • gli atei che sanno che la vita è «un pendolo tra il dolore e la noia» e sopportano stoicamente;
  • i buddhisti che – ancor più stoicamente – sanno che la causa della sofferenza è il desiderio, e praticano l’ascesi per estinguerlo;
sale e magic arena

Ora.

Ironia a parte.

Un bellissimo esempio di questo «secondo atteggiamento» è quello di Marie-Azélie Guérin (1831-1877).

Per chi non la conoscesse, Marie-Azélie è la mamma di santa Teresa di Lisieux.

È stata canonizzata da papa Francesco nel 2015.

Ecco cosa scriveva al fratello, in una lettera di luglio 1872, per rincuorarlo in un momento di fatica:

[…] c’era solo una cosa da fare: pregare il buon Dio, poiché né lei né io potevamo aiutarti in altro modo.
Ma Lui, che può tutto, quando vedrà che abbiamo sofferto abbastanza ci “tirerà fuori”.
Allora tu riconoscerai che devi la tua riuscita non alle tue capacità né alla tua intelligenza, ma a Dio solo – come [accadde a] me, con il punto di Alençon: è una convinzione molto salutare, l’ho provato di persona.
Tu sai che siamo tutti portati all’orgoglio e io noto spesso che chi ha fatto fortuna è, per lo più, di una sufficienza insopportabile.
Non dico che io sarei divenuta così e nemmeno tu, ma saremmo stati più o meno macchiati d’orgoglio; inoltre, è certo che la costante prosperità allontana da Dio.
Egli non ha mai condotto i suoi eletti per questa via: prima li ha fatti passare per il crogiuolo della sofferenza, per purificarli.
Tu dirai che ti faccio la predica, ma non è mia intenzione; penso molto spesso a queste cose e te le dico; adesso, se vuoi, chiamala predica!

(ZELIA GUÉRIN, LUIGI MARTIN, Lettere familiari: dei genitori di santa Teresa di Gesù Bambino (1863-1888), Edizioni OCD, Roma 2019, versione Kindle, 31%)

Cosa dice Marie-Azélie al fratello?

Gli consegna quello di cui lei ha fatto esperienza – e di cui hanno fatto esperienza molti altri santi (Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, Teresa di Calcutta, etc.)… e cioè che spesso Dio si serve della sofferenza per purificare il cuore dell’uomo:

  • per ammorbidirlo
  • per renderlo più docile
  • per donargli una maggiore empatia verso la sofferenza degli altri
  • per renderlo umile
  • per togliere dalla vita tante cose superflue

Come già dicevo in un’altra pagina del blog, non è questione di mortificarsi o andarsi a cercare il dolore… perché tanto ci pensa la vita.

A tal proposito, vi riporto un aneddoto molto intelligente tratto da un libro del cardinale ceco Tomáš Špidlík (1919-2010):

Due pittori hanno ricevuto entrambi una grande tela per dipingervi un paesaggio primaverile con dei colori chiari, pastello.
Purtroppo tutti e due, per inavvertenza, hanno danneggiato più volte il progetto con delle macchie nere.
Il primo taglia via ogni volta il pezzo di tela imbrattato, così che alla fine il quadro è chiaro, ma la sua misura è notevolmente diminuita.
L’altro pittore procede diversamente.
Intendeva dipingere delle colombe bianche in volo sopra i campi.
Ma siccome nel posto dove voleva dipingere le colombe ci sono le macchie, trasforma il progetto e colloca qui un’aquila nera che vola sulle nuvole bianche.
Sempre nello stesso quadro, al posto del campo di gigli pensato inizialmente, dipinge una foresta ombrosa.
Il quadro finale è diverso, ma conserva la sua integrità e anche l’idea principale.
Il primo pittore sarebbe un esempio della penitenza in senso profano, il secondo esprime la forza creativa della penitenza cristiana.

(TOMÁŠ ŠPIDLÍK, Una conoscenza integrale : la via del simbolo, Lipa, Roma 2010, p.76-77)

Un’altra frase molto bella è questo stralcio di Agostino d’Ippona (354-430):

In queste tribolazioni dunque, che possono giovare o nuocere, noi non sappiamo che cosa chiedere perché la nostra preghiera sia come si conviene; ma tuttavia, poiché sono prove dure, amare, che ripugnano alla sensibilità della nostra natura, noi preghiamo, con un desiderio comune a tutti gli uomini, che esse vengano allontanate da noi.
Ma a Dio nostro Signore dobbiamo (dare) questa prova d’amore: che cioè, se non allontana le prove del dolore, non dobbiamo per questo credere di essere trascurati da Lui, anzi speriamo piuttosto beni più grandi con la santa sopportazione dei mali.
Così si perfeziona la virtù nella debolezza.
Ad alcuni impazienti il Signore Iddio concesse, sdegnato, ciò che chiedevano, come, al contrario, non esaudì benignamente l’Apostolo.

(AGOSTINO D’IPPONA, Lettera 130 (a Proba), 14.26)

Anche in questo caso – come nella lettera di Marie-Azélie che ho riportato sopra – ritroviamo due esortazioni:

  • la prima è quella di chiedere a Dio che – se possibile – allontani da noi la sofferenza (sulla falsa riga dell’ultima richiesta del Padre Nostro: «liberaci dal male»);
  • il secondo invito però è quello alla perseveranza: bisogna confidare nel fatto che Dio è capace di orientare al bene anche il male più assurdo e insensato (altrimenti non permetterebbe quel male).

Insomma.

Di fronte al dolore…

Di fronte alla sofferenza…

Quando sono nel digrignamento di denti più stridente…

Quando c’è quella-persona-lì-a-cui-vorrei-rompere-una-sedia-in-testa

…mi sento molto consolato da quello che diceva don Fabio Rosini:

C’è un santo dubbio che ci deve venire in testa: e se Dio si servisse di questa persona? E se Dio, per interrompere il piano della nostra vita, che è il nostro e non il suo, si servisse proprio delle persone che ci intralciano per farci smettere di andare al nostro ritmo e andare al suo?
Perché, qual è il suo?
Qual è il ritmo di Dio?
Il ritmo di Dio è la pazienza, la lentezza all’ira […].
Noi abbiamo il ritmo del nostro efficientismo, dobbiamo fare cose, fare cose, fare cose, «faccio cose, vedo gente…» e i molesti, le persone difettose, noiose, capaci di appesantirci, ci costringono a non essere efficaci.
Ma questa è veramente una perdita?
Sotto un punto di vista operativo è drammatico, sotto il punto di vista spirituale è una mano santa straordinaria per piegare il nostro cuore perché alla fine ci affezioniamo ai nostri ritmi, ai nostri obiettivi, ai progetti e così, molto spesso, i difetti degli altri sono emissari della provvidenza per stare su questa terra, per stare nella realtà, per renderci conto che le cose vanno a buon fine se Dio ci aiuta, non se noi siamo validi e sempre attivi.

(FABIO ROSINI, Solo l’amore crea : le opere di misericordia spirituale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016, versione Kindle, 80%)

Tante volte bisognerà fare questa cosa: lasciare che Dio ci salvi per mezzo delle cose che ci impoveriscono.

(FABIO ROSINI, L’arte della buona battaglia : la libertà interiore e gli otto pensieri maligni secondo Evagrio Pontico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2023, p.223)

2.3 • Il terzo atteggiamento nei confronti della sofferenza

Dunque.

Nel primo paragrafo ho parlato dell’atteggiamento scandalizzato di stare di fronte alla sofferenza…

Nel secondo paragrafo ho parlato di un possibile atteggiamento arrendevole di stare di fronte alla sofferenza (*)…

sale che rosica

Per introdurre questo terzo ed ultimo atteggiamento, vi riporto uno stralcio di una lettera di don Luigi Giussani (1922-2005):

Io nella mia prima Messa ho chiesto a Lui per me un’unica cosa: che mi tenga in Croce con Lui.
Perché l’amicizia è una tal cosa che lascia irrequieti al pensiero di essere diversi dall’amico: bisogna essere il più possibile uguali, identici: uniti ed impastati insieme, aderenti l’uno all’altro così come la luce aderisce ai contorni delle cose: e se Lui è in Croce, tutto l’orgoglio mio deve consistere nel sentirmi come Lui…

(LUIGI GIUSSANI, lettera del 3 gennaio 1946 in ID., Lettere di fede e di amicizia ad angelo Majo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2007, p.41-42)

Sulla falsa riga di queste parole, il cardinale e arcivescovo vietnamita François-Xavier Nguyễn Văn Thuận (1928-2002) – durante la sua prigionia/isolamento a Phú Khánh (nel centro del Viêt Nam) – scriveva qualcosa di simile, il 7 ottobre 1976:

Accetto la mia croce e la pianto, con le mie due mani, nel mio cuore.
Se tu mi permettessi di scegliere, non cambierei perché tu sei con me!
Non ho più paura, ho capito, ti seguo nella tua passione e nella tua risurrezione.

(FRANÇOIS-XAVIER NGUYỄN VĂN THUẬN, Cinque pani e due pesci : dalla sofferenza del carcere una gioiosa testimonianza di fede, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2014, versione kindle, 52%)

Queste righe probabilmente sembreranno uno scandalo, agli occhi di molti di voi.

Qualcuno potrà sentirsi provocato.

Infastidito.

Messo in discussione.

Lo capisco.

Fanno questo effetto anche a me.

Mettono a nudo la mia lontananza da Dio.

La scarsissima (se non assente) fiducia che ho in Lui.

La Fede che non ho.

La Speranza che non ho.

Lo sguardo spaventato che ho nei suoi confronti – che ha ancora bisogno di essere ammorbidito dalla sua tenerezza, dalla sua dolcezza, dal fermarmi a contemplarlo nel Tabernacolo, dal nutrirmi di Lui…

Non è questione di “sforzarsi di pensare bene” di Dio.

Non è questione di “impegnarsi”.

È solo questione di riconoscere il Suo profumo, quando passa nella mia vita – fosse anche nelle vicende dolorose.

E non si può riconoscere il profumo di uno Sconosciuto.

~

Sulla falsa riga delle parole di don Giussani e del cardinal Văn Thuận, c’è uno passaggio molto bello delle fonti francescane che vi riporto qui sotto (è un po’ lungo… ma merita di essere letto per intero):

Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Angioli con frate Lione a tempo di verno, e ‘l freddo grandissimo fortemente il crucciava, chiamò frate Lione il quale andava innanzi, e disse così: «Frate Lione, avvegnadioché li frati Minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione; nientedimeno scrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia».
E andando più oltre santo Francesco, il chiamò la seconda volta: «O frate Lione, benché il frate Minore allumini li ciechi e distenda gli attratti, iscacci le dimonia, renda l’udir alli sordi e l’andare alli zoppi, il parlare alli mutoli e, ch’è maggior cosa, risusciti li morti di quattro dì; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia».
E andando un poco, santo Francesco grida forte: «O frate Lione, se ‘l frate Minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare, non solamente le cose future, ma eziandio li segreti delle coscienze e delli uomini; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia».
Andando un poco più oltre, santo Francesco chiamava ancora forte: «O frate Lione, pecorella di Dio, benché il frate Minore parli con lingua d’Agnolo, e sappia i corsi delle istelle e le virtù delle erbe, e fussongli rivelati tutti li tesori della terra, e conoscesse le virtù degli uccelli e de’ pesci e di tutti gli animali e delle pietre e delle acque; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia».
E andando ancora un pezzo, santo Francesco chiamò forte: «O frate Lione, benché ‘l frate Minore sapesse sì bene predicare che convertisse tutti gl’infedeli alla fede di Cristo; iscrivi che non è ivi perfetta letizia».
E durando questo modo di parlare bene di due miglia, frate Lione, con grande ammirazione il domandò e disse: «Padre, io ti priego dalla parte di Dio che tu mi dica dove è perfetta letizia».
E santo Francesco sì gli rispuose: «Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e ‘l portinaio verrà adirato e dirà: Chi siete voi? e noi diremo: Noi siamo due de’ vostri frati; e colui dirà: Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbarcene e sanza mormorare di lui, e penseremo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfetta letizia»

(Fonti Francescane, n.278)

Ripeto quanto ho scritto sopra: non è questione di “sforzarsi”.

Non è questione di “stringere i denti”.

Non è questione di nascondere sotto al tappeto la rabbia nei confronti della sofferenza, il dolore, il rammarico, la delusione…

Questo modo di stare con la sofferenza è il frutto maturo di una relazione intima, viscerale, vera, con Dio.

Se c’è questa intimità, tutto il resto viene da sé.

Se c’è questa intimità, «è una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente» (1 Pietro 2,19).

E infatti Gilbert Keith Chesterton – nel suo saggio su san Francesco d’Assisi – parlando delle stimmate del santo, le ha descritte in questo modo:

[…] quelle ferite aperte e destinate non a guarire, ma a guarire il mondo.

(GILBERT KEITH CHESTERTON, San Francesco, Lindau, Torino 2016, versione Kindle, 4%)

~

Chiudo questo paragrafo con un brano di Giovanni della Croce (1542-1591):

Per quanto siano molti i misteri e le meraviglie scoperte dai santi dottori e intese dalle anime sante nel presente stato di vita, tuttavia ne è rimasta da dire e da capire la maggior parte e quindi c’è ancora molto da approfondire in Cristo.
Questi infatti è come una miniera, ricca di immense vene di tesori, dei quali, per quanto si vada a fondo, non si trova la fine; anzi in ciascuna cavità si scoprono nuovi filoni di ricchezze.
Perciò san Paolo dice del Cristo: «In Cristo si trovano nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3) nei quali l’anima non può penetrare, se prima non passa per le strettezze della sofferenza interna ed esterna.
Infatti, a quel poco che è possibile sapere in questa vita dei misteri di Cristo, non si può giungere senza aver sofferto molto, aver ricevuto da Dio numerose grazie intellettuali e sensibili e senza aver fatto precedere un lungo esercizio spirituale, poiché tutte queste grazie sono più imperfette della sapienza dei misteri di Cristo, per la quale servono di semplice disposizione.
Oh, se l’anima riuscisse a capire che non si può giungere nel folto delle ricchezze e della sapienza di Dio, se non entrando dove più numerose sono le sofferenze di ogni genere, riponendovi la sua consolazione e il suo desiderio! Come chi desidera veramente la sapienza divina, in primo luogo brama di entrare veramente nello spessore della croce!
Per questo san Paolo ammoniva i discepoli di Èfeso che non venissero meno nelle tribolazioni, ma stessero forti e radicati e fondati nella carità, e così potessero comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza per essere ricolmi di tutta la pienezza di Dio (cfr. Ef 3,17).
Per accedere alle ricchezze della sapienza divina la porta è la croce.
Si tratta di una porta stretta nella quale pochi desiderano entrare, mentre sono molti coloro che amano i diletti a cui si giunge per suo mezzo.

(GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico spirituale, strofe 36-37)

Conclusione

Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900) faceva dire al suo Zarathustra che:

Davvero, l’uomo è un fiume melmoso.
Bisogna essere un mare per accogliere un fiume melmoso senza intorbidarsi.

(FRIEDRICH NIETZSCHE , Così parlò Zarathustra: Un libro per tutti e per nessuno, Mondadori, Milano 2013, versione Kindle, 11%)

E poco dopo, aggiungeva: «Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare in cui può andare a fondo il vostro grande disprezzo».

Mi dispiace per Nietzsche, ma io non penso che la posizione vincente nei confronti del dolore sia quella «del superuomo».

Il superuomo potrà anche «ridere di queste cose, e danzare oltre sé stesso» (cfr. FRIEDRICH NIETZSCHE, Così parlo Zarathustra, parte quarta, dal discorso «Dell’uomo superiore»), ma non risolverà il problema della sofferenza.

Io non penso che la soluzione sia «una risata»

E neanche lo stoicismo…

E neanche lo «sforzo» di tirare fuori il petto nei confronti del dolore…

…però il Mare di cui parla Nietzsche esiste: il «mare che non si intorbida» nell’accogliere il «fiume melmoso» della sofferenza umana…

Il Mare di cui parla Nietzsche è quello cui il profeta Isaia – nell’Antico Testamento – scriveva queste righe:

Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia;

era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori;
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.

Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua posterità?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.

Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha spogliato se stesso fino alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i colpevoli.

(Isaia 53,2-12)

sale

(Inverno 2023-2024)

Fonti/approfondimenti

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